barralunga

REES Marche

RSS logo

Calendario

    Beni comuni

    Michele Altomeni
    Fonte: Comportamenti solidali

    La madre terra



    Terra è il pianeta che ci ospita. Terra è la materia bruna che ne costituisce la superficie. Terra è il nome con cui il contadino designa la porzione di suolo sui cui lavora, o quello con cui si indica il territorio di appartenenza.
    In tutti i casi è strettamente legata agli aspetti sia materiali che spirituali della vita. L’essere umano, in tutta la sua storia, ha vissuto un profondo legame con la terra, tanto da farne un elemento centrale delle diverse mitologie e religioni.



    Gea (o Gaia) era la dispensatrice dei frutti, delle piante e degli animali necessari alla vita e al sostentamento umano ed era anche generatrice di numerose altre divinità, tra cui il dio greco Zeus. Nelle diverse culture la terra è una divinità materna ed una forza feconda che dona la vita.
    In epoca più recente il legame profondo tra l’uomo e la terra si è allentato e si è offuscata la percezione dell’importanza di Gea, che da madre nutrice è sempre più apparsa ai suoi figli come schiava da sfruttare, prelevando e dissipando ogni suo dono, indifferenti alle conseguenze. Molti problemi che la nostre società si trova a vivere hanno radice in questo cambio di percezione.

    Memorie del sottosuolo


    Dal sottosuolo, attraverso l’industria mineraria, ricaviamo una parte consistente della materie prime di cui si alimenta la nostra società.
    Le risorse minerarie, come gran parte delle risorse consumate dai paesi ricchi, provengono in gran parte dal sud del mondo, dove le popolazioni locali, anziché benefici, ne ricavano distruzione del territorio, inquinamento e sfruttamento. L’apertura di nuove miniere è spesso motivo di vere e proprie deportazioni delle comunità che vivono sul luogo, oppure motivo della loro fuga dalla devastazione ambientale. A ciò si aggiunga che il settore minerario vede ogni anno 14.000 vittime di incidenti sul lavoro, e molti contraggono malattie ai polmoni o al sangue. Secondo l’OIL1 il settore minerario impiega meno dell’1% della forza operaia mondiale, ma è responsabile del 5% dei decessi sul lavoro.



    Le miniere spostano ogni anno più terra e roccia di quanto abbiano fatto insieme tutti i fiumi del mondo. Un anello d’oro di 5 grammi si lascia alle spalle 2 tonnellate di rifiuti rocciosi. Una tonnellata di rame produce detriti per 110 tonnellate e lo spostamento di 200 tonnellate di terra.
    Per separare l’oro dagli altri elementi si utilizza il cianuro spruzzato con acqua sopra il materiale rimosso e, in alcuni casi, si versano i liquidi contaminati direttamente nei fiumi, oppure in appositi luoghi di stoccaggio tutt’altro che sicuri, con frequenti casi di rotture e sversamenti.



    Occupazione dello spazio


    Lo spazio, ossia la superficie terrestre, è una risorsa limitata. L’aumento di popolazione, l’urbanizzazione e altre forme di occupazione umana da un lato, la desertificazione e l’erosione dall’altra, stanno rendendo questa risorsa sempre più scarsa. Il consumo mondiale di suolo viene stimato in circa 11 milioni di ettari l’anno. Un’elaborazione del WWF del 1997 su dati ISTAT stimava che 2.114.150 ettari, ossia il 7% del suolo italiano, sono occupati da edifici e strade urbane. Il dato relativo alle Marche è di 48.898, cioè il 5%. A questi dati vanno aggiunti i terreni occupati da strutture collegate agli edifici (parcheggi, accessi, cortili…) e le costruzioni abusive. Nonostante il decremento demografico in Italia si continuano a costruire abitazioni ad un ritmo vertiginoso, le case non occupate sono sempre di più, ma allo stesso tempo aumentano costi per acquisto e affitto. Buona parte di questo territorio viene sottratto alla produzione agricola come risultato della speculazione edilizia e fondiaria, in quanto un terreno edificabile procura molti più guadagni di uno coltivato.


    Sull’occupazione dello spazio incidono pesantemente anche le infrastrutture per i trasporti. Considerando solo strade nazionali e provinciali la superficie coperta è di 359.000 ettari, l’1,2% di quella nazionale. Oltre ad occupare spazio, queste infrastrutture frammentano il territorio inserendo una barriera che modifica gli equilibri sociali ed ecologici.

    Le ferite del paesaggio


    Il paesaggio è il risultato dell’interazione dei diversi elementi della natura, compreso l’essere umano. La sua percezione cambia con il passare del tempo e con il modificarsi del gusto, ma ormai l’azione umana opera stravolgimenti che non riescono più ad integrarsi.


    Il paesaggio, tanto più in un paese come il nostro, è una risorsa e, in quanto tale, va tutelato. A questo dovrebbero servire i piani regolatori che hanno la funzione di stabilire dove e cosa si può costruire, e quali spazi vanno invece lasciati integri dal punto di vista ambientale. La pianificazione urbanistica dovrebbe bloccare l’espansione del territorio edificato per puntare alla riqualificazione degli spazi, alla valorizzazione del paesaggio, alla tutela dell’ambiente. Purtroppo basta guardarsi attorno per constatare la devastazione avvenuta negli ultimi decenni di urbanizzazione selvaggia sulla base di un’idea esasperata della proprietà che porta molti a ritenere di poter fare sui loro terreni ciò che vogliono.


    Il fatto che non siamo più capaci di sentire le ferite del paesaggio, di soffrirne, è un dato preoccupante di una trasformazione antropologica che ci fa sempre più alieni alla natura e ci rende “artificiali”. Il paesaggio va tutelato per il suo valore estetico, ma anche in qualità di ecosistema e di risorsa economica.

    L’arte di abitare

    In molte lingue, compresa la nostra, la parola abitare è sinonimo di vivere. Abitare una città o vivere in una città significano la stessa cosa. Vivere a abitare sono verbi complessi, che descrivono un processo multiforme, qualcosa che si evolve, si trasforma e plasma la realtà. L’abitazione, cioè il luogo in cui si abita, in altri tempi e culture, è coinvolta nel processo del vivere, ne assume le tracce, si trasforma, le case crescono con il crescere di una famiglia e parti decadono con la sua contrazione, si adattano alle attività lavorative e cambiano aspetto con il cambiare delle condizioni sociali degli abitanti. Ivan Illich definiva questo processo “arte di abitare”, cioè un’arte popolare che, come il linguaggio, si acquisisce con l’esperienza ed assume caratteristiche tipiche legate al luogo. L’arte di abitare crea lo spazio vernacolare, che è profondamente diverso dallo spazio tridimensionale su cui si basa il lavoro degli architetti. Ma questa arte ha “ceduto all’assalto dei viali regali, che in nome dell’ordine, della pulizia, della sicurezza e del decoro sventrarono i quartieri. Essa è caduta sotto i colpi della polizia, che nel diciannovesimo secolo ha dato nomi alle strade e numeri alle case. E’ stata minata dai tecnici, che nel diciannovesimo secolo hanno introdotto le fognature e i controlli sanitari. Ed è stata quasi distrutta dal benessere, che ha esaltato il diritto di ogni cittadino a possedere il proprio garage e il proprio televisore”2


    L’idea di abitare è stata inghiottita dalla globalizzazione: alloggi, case e quartieri sono progettati e realizzati uguali in tutto il mondo modificando profondamente lo stile di vita degli abitanti, trasformando lo spazio ed il tempo in risorse economiche e l’abitazione in merce. Così lo spazio abitato ha perso la sua identità, il suo legame con la civiltà, con la storia, e chi lo abita non fa più parte di un’unità sociale e culturale che lui stesso determina, ma subisce passivamente le trasformazioni.


    Si tende sempre più alla privatizzazione degli spazi e delle risorse. L’abitazione, inserita nel tessuto urbano, viveva con esso uno scambio. Lo spazio circostante era vissuto come una continuità dell’abitazione e lo spazio privato si dissolveva negli spazi comuni. Con la rottura dei legami sociali è nato il bisogno di creare confini e barriere nette, recinti e cancelli, e le funzioni che si potevano svolgere negli spazi comuni sono stati inglobate. Questo ha portato alla richiesta di superfici sempre maggiori ed ha determinato lo spostamento degli insediamenti in aree periferiche non ancora urbanizzate, espandendo e disgregando ulteriormente il tessuto urbano, divorando spazio e stravolgendo il paesaggio, per non parlare della altre conseguenze (aumento dei trasporti, del consumo energetico…).


    Nel frattempo, l’abitazione diventata merce, ha seguito le regole del mercato e come in qualunque altra merce la ricerca del profitto ha degradato la qualità. Le tecniche costruttive ed i materiali sono sempre più scadenti, sempre meno capaci di assolvere funzioni primarie (isolamento termico, ricambio dell’aria, illuminazione, salubrità degli ambienti…) e anche meno resistenti all’erosione. Un intero patrimonio edilizio eretto a partire dal dopoguerra è già in fase avanzata di degrado e richiede massicci interventi di restauro.


    La pianificazione, strumento che doveva evitare le speculazioni e la devastazione del territorio, ha invece avuto enormi responsabilità in questo processo, che si aggiunge all’altra grande colpa, quella di avere espropriato i cittadini dell’arte di abitare, a partire dall’arte di costruire, cioè autocostruire, le proprie abitazioni. L’alleanza tra proprietari fondiari, imprese di costruzione, tecnici e politici ha dato vita ad un corpo normativo che, in pratica, esclude la possibilità di garantirsi autonomamente il diritto di abitare, compresa la possibilità di apportare modifiche ad un’abitazione esistente. Questo processo ha fatto sì che oggi, nella nostra cultura, autocostruzione e abusivismo siano sinonimi e che spesso anche movimenti ambientalisti cadano in questo errore. Di fatto il cittadino è stato espropriato di un sapere e di un potere, per consegnarlo, nudo ed inerme, al mercato immobiliare.

    L’affare delle cave


    L’urbanizzazione selvaggia è una faccia della medaglia, dall’altra si trovano le cave, che forniscono i materiali per la costruzione e che, a loro volta, devastano il paesaggio: scavi e prelievi che lasciano vistose cicatrici sul territorio e che animano forti polemiche tra chi sulle cave ha grandi interessi economici e chi si batte per la tutela del territorio e del paesaggio. La normativa, spesso carente e altrettanto spesso disattesa e violata, non aiuta.
    Troppe sono le cave abusive, quelle fuori controllo, quelle che si trasformano in discariche irregolari e quelle in mano alla malavita.

    Dissesto del territorio

    Fenomeni catastrofici come alluvioni, frane, mareggiate e trombe d’aria sono in evidente crescita. Il 2002, ad esempio, è stato l’anno record per il numero e la gravità di alluvioni nel mondo: ben 190 da gennaio ad agosto. Il numero più alto negli ultimi 18 anni; danni stimati per almeno 1.300 miliardi di euro che hanno colpito prevalentemente Brasile, Australia, Cina, Russia, Afghanistan e Europa.
    Questo incremento si deve, da un lato, ai mutamenti climatici generati dall’inquinamento, dall’altro al dissesto idrogeologico del territorio. Tra le cause principali il disboscamento, l’alterazione del corso dei fiumi e l’impermeabilizzazione del suolo dovuta all’urbanizzazione e ad altri interventi umani.

    Torna su'

    Note: 1) Organizzazione Internazionale del Lavoro
    2) Ivan Illich. Nello specchio del passato

    Sito realizzato con PhPeace 2.6.32

    PhPeace è software libero, e ognuno è libero di ridistribuirlo secondo le condizioni dellaLicenza GNU GPL

    A meno di avvisi di particolari (articoli con diritti riservati) il materiale presente in questo sito può essere copiato e ridistribuito, purchè vengano citate le fonti e gli autori. Non si assume alcuna responsabilità per gli articoli e il materiale pubblicato.

    validateXHTMLcclvalidateCSS

    Segnala eventuali errori al WebMaster | RSS logo