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    Michele Altomeni
    Fonte: Comportamenti Solidali

    Guerre e politica del petrolio

    Il mercato del petrolio è uno dei settori maggiormente caratterizzato dalla corruzione. Diversi sono i casi di capi di stato, soprattutto nel sud del mondo, che hanno ricevuto laute tangenti o finanziamenti con cui acquistare armi per tenere in piedi regimi dittatoriali, in cambio di condizioni particolarmente favorevoli alle imprese petrolifere per lo sfruttamento dei giacimenti.
    La corruzione permette alle multinazionali del petrolio di ignorare le conseguenze per le popolazioni locali e per l’ambiente. In alcuni casi sono gli stessi governi a fare il lavoro sporco attraverso la repressione cruenta, come in Nigeria o in Sudan, dove le multinazionali petrolifere hanno finanziato l’acquisto delle armi dell’esercito e della polizia, usate per eliminare chi intralciava i loro affari. Spesso alle popolazioni residenti nei pressi dei giacimenti non resta che scegliere tra l’esodo e la permanenza in luoghi devastati.
    Tutto questo non può essere giustificato nemmeno dalle prospettive di sviluppo dato che l’economista Jeffrey Sachs, realizzando uno studio sui paesi produttori di petrolio, ha dimostrato che hanno avuto una crescita economica minore degli altri e maggiori squilibri interni.
    L'intreccio tra politica e petrolio è ben rappresentato dall'amministrazione degli Stati Uniti, dove il presidente George W. Bush è l'ultimo discendente di una dinastia petrolifera, Dick Cheney è un ex dirigente della Halliburton, società di servizi petroliferi, e Condoleeza Rice è ex dirigente della Chevron, per citare solo alcuni dei casi più noti. A ciò si aggiunga che i principali finanziatori della campagna elettorale di Bush sono stati gli industriali texani del petrolio8.
    Nel maggio 2001 Bush diffuse un allarmante documento elaborato da una commissione presieduta da Dick Cheney, secondo cui l'America fronteggia la più grave penuria di energia dall'embargo del petrolio degli anni Settanta9. Il rapporto afferma che questa crisi si deve alla crescita dei consumi ad un ritmo molto più elevato della produzione; rileva che nei prossimi 20 anni il consumo petrolifero USA aumenterà del 33%, il consumo di gas naturale del 50% e la domanda di elettricità crescerà del 45%; lo scarto con la produzione aumenterà sempre di più e crescerà anche la dipendenza energetica del paese. Lo stesso rapporto afferma che la questione energetica deve essere considerata prioritaria nella politica commerciale e estera degli USA. Quello stesso documento non fa nessun cenno alla necessità di ridimensionare i consumi, di cambiare modello produttivo ed economico, di puntare sulle fonti alternative, ma si limita ad analizzare le strade per rispondere alla maggiore domanda.
    Dal 1950 in avanti, il controllo delle risorse petrolifere ha rappresentato un costante motivo di crisi internazionale. Nei primi 30 anni del XX secolo è iniziato lo sviluppo dell’industria petrolifera americana verso l’esterno. Tra 1950 e 1970 le “Sette sorelle” (Exxon, Mobil, Chevron, Texaco, Gulf, Royal Dutch/Shell, BritishPetroleum) promossero la penetrazione del petrolio nell’intero sistema energetico mondiale, scalzando il carbone, tanto che la domanda di greggio passò dai 10 milioni di barili al giorno del 1950 ai 46,8 del 1970. In quagli anni si è sviluppata la petrolchimica e la produzione annua di automobili è passata da 8 a 22 milioni. Da allora i consumi mondiali di petrolio hanno continuato a crescere: nel 1991 ammontavano a 66,8 milioni di barili al giorno e nel 2001 a 75,9.
    Negli anni 50 si comprese che le riserve di petrolio erano concentrate in pochi enormi giacimenti e che, per controllare la risorsa, occorreva controllare il territorio. Il settore militare divenne lo strumento principale di questo controllo. Le cinque maggiori potenze petrolifere (Arabia Saudita, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Iran) sono concentrate nel ristretto territorio del Golfo Persico, le loro riserve ammontano a 658.250 milioni di barili, pari al 63% delle riserve mondiali. Forse non è un caso se questa area, da decenni, è martoriata da conflitti, se Iran e Iraq vengono classificate dagli Stati Uniti come forze del male mentre gli altri tre stati sono considerati amici proprio in virtù della loro disponibilità a scendere a patti con gli USA sulla gestione del petrolio.
    Una caratteristica del mercato petrolifero è la distanza tra i luoghi di maggiore produzione e quelli di maggiore consumo. Il trasferimento del greggio avviene principalmente via nave o attraverso oleodotti, ma dato l’intasamento di alcuni stretti per il trasporto via mare, tende ad aumentare l’importanza strategica degli oleodotti. Diversi sono quelli in via di costruzione e progettazione, con particolare attenzione al trasporto da est a ovest. A questo proposito è di grande interesse il cosiddetto “corridoio 8” che dal Mar Nero dovrà raggiungere l’Adriatico passando per la Bulgaria, la Macedonia, il Kosovo e l’Albania. Anche in questo caso le guerre degli ultimi anni ed in particolare gli interventi militari degli USA in questa area, hanno un significato molto chiaro.

    Controllo sociale

    Una società altamente tecnologica fondata su fonti energetiche concentrata in poche mani non può dirsi del tutto democratica. Di fatto chi controlla le fonti energetiche esercita un controllo economico, sociale e politico molto pesante sulla società.
    Le fonti energetiche, la loro trasformazione e distribuzione sono saldamente controllate da pochi soggetti, in particolare multinazionali petrolifere, che con il loro potere riescono a condizionare anche le scelte politiche di grandi stati, ad esempio scoraggiando l'investimento in forme di energia alternativa e, non di rado, incoraggiando guerre strettamente legate al mercato dell'energia.
    Tre multinazionali a prevalente capitale angloamericano sono superpotenze che hanno una capitalizzazione doppia rispetto alle dirette concorrenti. In ogni caso, tra le prime dieci società petrolifere, nemmeno una è originaria del Golfo Persico, luogo in cui si trovano i principali giacimenti.

    Dipendenza

    Oltre il 13% dell’energia elettrica consumata in Italia viene importata dall’estero nonostante la potenza prodotta nel paese sarebbe sufficiente per gran parte dell’anno. Alle importazioni si ricorre soprattutto di notte, quando l’elettricità importata (fino al 25/30% del fabbisogno) costa meno di quella prodotta.
    Anche per la produzione interna dipendiamo dal mercato estero dato che continuiamo a ottenere energia dal petrolio anziché sfruttare le risorse rinnovabili di cui siamo ricchi. La produzione nazionale di petrolio greggio nel 2000 è stata il 5% del totale e quella di gas il 23,5%. Nello stesso anno la fattura energetica di gas e petrolio importati dall’estero è stata di 36,2 mila miliardi di lire mentre la fattura energetica completa è stata di 56mila miliardi (il 2,5 del PIL). Il gas naturale viene importato prevalentemente dall'Algeria (48%), dalla Russia (37%) e dall’Olanda (11%).

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    Note: 8) La guerra del petrolio – Michele Paolini. Libelluli Altreconomia Editrice Berti
    9) La guerra del petrolio – Michele Paolini. Libelluli Altreconomia Editrice Berti

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