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    Beni comuni

    30 settembre 2006 - Michele Altomeni
    Fonte: Comportamenti Solidali

    La sfera economica

    L’economia dovrebbe studiare il modo in cui l’essere umano si procura i beni di cui ha bisogno. Studiando l’uomo nei suoi comportamenti non può essere considerata una scienza esatta, perché il comportamento umano è determinato da così tanti fattori da rendere impossibile l’elaborazione di modelli matematici. Nell’era di Cartesio e Newton l’economia è stata travolta dall’ambizione di essere riconosciuta come scienza a tutti gli effetti e si è data una struttura sempre più matematica, ma questo l’ha portata ad elaborare un mondo tutto suo, una realtà virtuale fatta di modelli e di teorie ipotetiche, un mondo che si è sempre più allontanato da quella realtà che doveva era oggetto del suo studio.
    La società si evolve, gli esseri umani cambiano, la realtà si trasforma continuamente, eppure l’economia continua ad appellarsi ad assunti immutabili. La psicologia, la cultura, i valori dell’uomo condizionano ogni azione, anche quelle economiche, ma non sono quantificabili e quindi non possono entrare nelle valutazioni degli economisti.
    Proclamatasi scienza esatta l’economia non si accontenta più di interpretare la realtà, ma pretende di plasmarla, dettando le regole che la società dovrà seguire per accrescere la sua ricchezza, imponendo le ricette che cureranno tutti i mali. Da scienza si è fatta istituzione e sempre più è riuscita a dettare l’agenda politica degli stati. Oggi più che mai sono le grandi istituzioni economiche (banche centrali, Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, Organizzazione Mondiale del Commercio, grandi multinazionali…) e definire la politica globale, mentre stati e organismi democratici svolgono un ruolo di ratifica ed esecutivo.
    I risultati conseguiti da questo sistema non sono affatto positivi: le risorse e la ricchezza sono ripartire in maniera sempre più diseguale, l’insicurezza sociale cresce assieme allo sfruttamento umano, le crisi finanziarie si fanno sempre più frequenti e molte risorse naturali sono in via di esaurimento. Eppure, anziché ripensare il ruolo dell’economia, le attribuiamo sempre più potere, anche perché ci siamo fatti espropriare del nostro sapere economico lasciandoci convincere che l’economia sia una materia per specialisti, fatta di formule complicate e termini incomprensibili. In realtà l’economia potrebbe essere compresa da tutti se solo chi la maneggia avesse interesse a farlo.

    Il ritorno della povertà


    Le generazioni nate dopo gli anni Sessanta associano l’idea di povertà ad epoche storiche passate, oppure ai paesi del sud del mondo. Per qualche decennio ci eravamo illusi di avere sconfitto la povertà in occidente e ci eravamo messi d’impegno per esportare in tutto il mondo la formula magica della ricchezza. Sarebbe bastato applicare i precetti dell’economia liberista ed ogni paese del mondo si sarebbe “sviluppato” come per magia. Armati di buone intenzioni, abbiamo fatto fatica a capacitarci del fatto che alcuni popoli non fossero poi così contenti di applicare la formula magica dello sviluppo. Convinti della nostra santa missione abbiamo comunque somministrato la medicina con mezzi più o meno ortodossi, non ultimi il ricatto e la guerra.
    Dopo decenni il risultato della crociata dello sviluppo è ben visibile. I 6 miliardi di abitanti della terra avevano nel 1999 un reddito medio di 5800$ all’anno, l’aumento è stato in media dell’1,6% annuo nel decennio precedente, ma la differenza tra il reddito medio nel Nord America e nell’Africa Subsahariana è di 20 volte. Nel 1750 la differenza di reddito tra i paesi del nord e i paesi del sud era di 1/2 soltanto.
    I paesi dell’OCSE, con il 19% della popolazione mondiale, rappresentano ¾ del prodotto interno lordo del pianeta, il 71% del commercio, il 58% degli investimenti, il 91% degli utenti di internet. Al 20% più povero è lasciato l’1%, o meno, di tutte queste variabili. In Nord America il reddito medio per abitante è di 26mila$, nell’Africa Subsahariana è di 1200$. A livello mondiale, nel 1950, il rapporto di PIL tra il 20% più ricco e il 20% più povero era di 25/1. Il reddito lordo medio del 20% più povero era di 75$/anno, quello del 20% più ricco era di 1875$/anno. Nel 1998 il rapporto era salito a 86/1: il 20% più povero aveva un reddito lordo pro capite annuo di 250$ mentre il 20% più ricco lo aveva di 21.500$. A ciò si aggiunga che il 20% più povero con i 250$ del 1998 riesce ad acquistare meno beni e servizi che con i 75$ del 1950. Le 3 persone più ricche del mondo possiedono ricchezze superiori alla somma del PIL di tutti i paesi meno sviluppati con i loro 600 milioni di abitanti.
    Lo sviluppo è stata una pura illusione come lo è stata la sconfitta della povertà in occidente. Si sono verificate alcune circostanze che hanno messo in mano ai paesi occidentali una grande ricchezza, e questi hanno scelto di giocarsi tutto in qualche decennio. Ci siamo giocati risorse naturali che avrebbero dovuto durare secoli e ci siamo giocati la possibilità di spremere fino all’ultima goccia di sangue e di sudore dai popoli del sud del mondo, questo ha prodotto la nostra ricchezza. Non avevamo sconfitto la povertà, l’avevamo semplicemente ammassata fuori dai nostri confini, ora la festa è finita e dovremo pagare il conto. L’ambiente devastato comincia a cedere, la povertà accumulata al di là dei confini è così tanta che non riusciamo più a tenerla fuori: entra appiccicata addosso ai migranti, ai profughi in fuga dalla miseria, dalle guerre, dalle catastrofi ambientali, ma entra anche come spirito, si aggrappa ai vestiti dei sempre più numerosi ex ricchi che popolano le nostre città, raggiunge dapprima i meno garantiti, gli anelli più deboli della catena, i precari, e poi i lavoratori dipendenti dichiarati in esubero, e via via fino gli autonomi, ai commercianti e anche qualche piccolo imprenditore stritolato dal mercato globale. L’insicurezza cresce e sono in pochi a poter stare del tutto tranquilli.
    La globalizzazione
    “La globalizzazione economica può essere definita come una fase del capitalismo moderno iniziata negli anni ’80 e caratterizzata da una accelerata integrazione internazionale delle attività economiche, sia nelle forme tradizionali – commercio e investimenti diretti all’estero – sia in forme nuove, come investimenti finanziari a breve termine, speculazioni sui cambi, commercio in servizi, variegati accordi tra imprese, complessi flussi di conoscenze e tecnologie. (…) La scala globale di queste attività è stata favorita dalla riduzione dei costi di trasporto, comunicazione e coordinamento consentiti soprattutto dall’emergere di un nuovo ‘paradigma tecnologico legato alle nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione”
    Mario Pianta

    La periferia del mondo


    I mezzi di informazione ci hanno abituati ad associare il sud del mondo alla povertà estrema, alle guerre, alle emergenze sanitarie, alle catastrofi naturali, allo sfruttamento umano. Poco ci hanno fatto capire di popoli e culture profondamente diverse dalla nostra, con altri valori e visioni del mondo, da cui avremmo potuto imparare tanto. Quasi per niente ci hanno spiegato le cause reali che stanno dietro ai mali dell’Africa, dell’America Latina e dell’Asia, come se quei mali fossero un fatto del tutto naturale, immutabili da sempre. E invece, molti di quei mali sono strettamente legati a politiche attuate dagli stati occidentali e, in un certo senso, ai nostri gesti di singoli cittadini.
    La povertà nel mondo non è un problema di “scarsità”, ma di distribuzione. Già oggi il pianeta produce più di quanto servirebbe a sfamare e soddisfare i bisogni primari della popolazione mondiale, ma gran parte delle risorse viene dissipata nei paesi del nord del mondo, e nei centri di potere e di opulenza che si trovano anche nel sud. Immense quantità di cibo vengono ogni anno distrutte come eccedenze per evitare che i prezzi crollino e un gran numero di Europei e Statunitensi soffre di malattie causate da una eccessiva alimentazione.
    Se le risorse disponibili sono sufficienti a soddisfare tutti i bisogni ma 4/5 degli abitanti del pianeta vive in condizioni di povertà significa che il modello economico è iniquo. Questo modello economico ha fatto sì che la disuguaglianza tra i più ricchi ed i più poveri del mondo si sia sempre più ampliata, che popolazioni capaci di garantirsi l’autosussistenza siano oggi in una condizione di assoluta miseria, che alcune delle persone più ricche della terra posseggano patrimoni di molto superiori a buona parte degli stati.

    Commercio mondiale


    Per gran parte della storia umana i bisogni sono stati soddisfatti in un ambito locale. Sul territorio si produceva, si scambiava e si metteva in comune ciò che serviva. I primi commercianti erano avventurieri che, rischiando la vita, intraprendevano lunghi viaggi per procurarsi merci preziose e rare per poi venderle nei mercati. Nei secoli gli scambi si sono moltiplicati, favoriti anche dall’introduzione della moneta, fino all’avvento della globalizzazione che vede un traffico di merci ormai surreale.
    Il commercio, secondo gli economisti, dovrebbe essere lo strumento che permette di ridistribuire le risorse nella maniera più razionale. Nella realtà contribuisce in maniera sostanziale a creare la grande ingiustizia globale. Ben lungi dal distribuire le risorse in base alle necessità il commercio assomiglia più ad una pompa che drena la ricchezza diffusa sul pianeta e la concentra in pochi luoghi, a beneficio di un ristretto numero di persone. Nel corso degli anni le materie prime, di cui i paesi del sud sono ricchi, hanno progressivamente perso valore, mentre i prodotti industriali e le tecnologie hanno aumentato i loro prezzi: se per acquistare un trattore nel 1985 ci voleva il ricavo della vendita di 55 sacchi di caffè, nel 1989 occorrevano 190 sacchi per lo stesso trattore.
    I paesi del sud del mondo non sono poveri, sono stati impoveriti attraverso lo sfruttamento che nella storia ha avuto diverse facce: il colonialismo, la schiavitù, lo sfruttamento delle risorse e del lavoro, la globalizzazione, la speculazione finanziaria.

    La concorrenza e le multinazionali


    Alla base del modello economico liberista c’è la concorrenza, un gioco in cui vince chi riesce a produrre di più spendendo meno. Per produrre di più si sfruttano al massimo le risorse naturali e umane, trascurando le conseguenze; per spendere di meno si risparmia sui fattori della produzione, cercando di ottenere prezzi sempre più bassi sulle materie prime e sul costo del lavoro, spostando la produzione da una parte all’altra del mondo se necessario. Chi gioca meglio queste carte vince e chi vince si mangia i perdenti e cresce inglobandoli. Il gioco della concorrenza ha favorito la concentrazione di grandi ricchezze in un numero sempre più ristretto di imprese multinazionali in situazione di monopolio, o almeno di oligopolio (pochi concorrenti), così potenti da condizionare e ricattare gli stati, ad esempio minacciando di spostare i loro investimenti altrove provocando un crollo dell’economia e dell’occupazione.
    Le società multinazionali sono imprese che, dal paese in cui ha sede il centro direttivo (società madre), operano in tutto il mondo attraverso filiali e investimenti esteri. Le società madri delle maggiori multinazionali sono concentrate per oltre il 95% in una decina di paesi ricchi. Queste società realizzano il 98% del fatturato e il 95% dei profitti complessivi delle 200 multinazionali.

    Investimenti esteri e delocalizzazioni


    Tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70 le imprese occidentali cominciano a smantellare i propri stabilimenti nei paesi di origine e a trasferire la produzione in zone del mondo dove il processo produttivo è meno dispendioso. Si trasferiscono in zone con legislazioni più permissive per quanto riguarda la manodopera (in certi casi sono vietati anche i sindacati) e per l’ambiente, e che offrono agevolazioni fiscali. I paesi poveri competono per attirare gli investimenti stranieri: nel 1997, 76 paesi hanno introdotto 151 modifiche nelle norme sugli investimenti e il 90% di queste li favorivano.
    Spesso la delocalizzazione avviene attraverso il subappalto, che consiste nell’affidare la produzione, o una parte di essa, a imprese terze. Ciò consente di ridurre i rischi connessi ai singoli mercati (sconvolgimenti politici, catastrofi naturali) e spostare la produzione da un paese all’altro a seconda delle convenienze. Così, se in un paese il costo del lavoro aumenta in seguito alle richieste dei lavoratori, non si fa altro che affidare la stessa produzione ad una fabbrica che accetta di produrre lo stesso bene ad un costo minore e magari in minor tempo. Così le ditte subappaltate aumentano volume ed orario di lavoro con metodi poco ortodossi, trascurano le norme di sicurezza e sfruttano i lavoratori più malleabili come donne e bambini. Il metodo del subappalto è talmente usato tra le multinazionali che ormai società come l’americana Nike o l’italiana Artsana (Chicco) non possiedono stabilimenti produttivi, limitandosi ad essere proprietarie di un marchio e del suo sfruttamento commerciale.
    Per avere un’idea di cosa siano oggi le delocalizzazioni consideriamo che 10.000$ di valore di un’auto della General Motors possono essere così ripartiti: 3.000$ vanno in Corea del Sud per lavorazioni di routine e di assemblaggio, 1.750$ vanno in Giappone per componenti ad alta tecnologia, 750$ vanno in Germania per il design e per il progetto delle parti meccaniche, 4.000$ vanno a Taiwan, Singapore e Giappone per piccoli componenti, 250$ vanno nel Regno Unito per pubblicità e servizi commerciali, 50$ vanno in Irlanda e Barbados per l’esecuzione di calcoli al computer.
    Le zone franche, eredi dei porti franchi dell’impero britannico, all’inizio del secolo scorso, sono passate dal commercio alla produzione agricola e quindi a quella industriale. Si trovano in paesi del sud e godono del sostegno ideologico e finanziario di organizzazioni internazionali come FMI, Banca Mondiale e ONU. Vengono create con l’intento di attirare investimenti stranieri, sviluppare l’industria e le infrastrutture, favorire i trasferimenti di tecnologie, procurare moneta e creare nuovi posti di lavoro. In realtà all’interno di queste aree vengono sospesi i diritti sindacali, la manodopera è sottopagata e si adottano politiche di agevolazioni fiscali. Le multinazionali utilizzano installazioni provvisorie di imprese dette “rondini” che richiedono piccoli investimenti (ammortizzabili in uno o due anni) e sono sempre pronte a traslocare per ottenere in altre zone maggiori vantaggi.

    Il dio denaro


    Il denaro ebbe origine tra la fine dell’VIII e l’inizio del VII secolo a.C. nello stesso periodo in cui nacquero la filosofia, la scienza, l’economia, la polis, la democrazia. I soldi di carta sono stati ideati in Cina ed introdotti in Europa durante il tardo Rinascimento e la prima banconota nazionale fu emessa nel 1694 dalla Banca d’Inghilterra. Di recente è arrivata un’altra grande trasformazione, quella del denaro elettronico, che ha prodotto nuove modifiche nell’economia e nella società.
    Fino al 1971 le monete nazionali erano convertibili in oro e quindi il loro valore dipendeva dalla quantità di questo metallo presente nei forzieri dello stato. Da questa data il legame venne sciolto e il valore della moneta iniziò a dipendere dalla credibilità dello stato. Nel corso della storia il denaro è sempre più diventato un atto di fede, altrimenti non si spiegherebbe perché dei rettangoli di carta e delle placche di metallo abbiano tanta importanza. Mettendo la moneta al centro dello scambio possiamo sottrarci dalla preoccupazione di sapere se sul mercato sono realmente disponibili i beni necessaria a soddisfare i nostri bisogni. Possedere denaro ci fa pensare di avere accesso al mondo dorato delle merci e di poter acquistare qualunque cosa in qualunque momento. In realtà questa è una pura illusione, e ogni tanto qualche popolazione mondiale vittima delle sempre più frequenti crisi finanziarie scopra l’amara realtà dietro ai paraventi di cartone: in un mercato senza prodotti vagoni di banconote sono del tutto inutili. Tutta l’economia mondiale rischia di rimanere vittima di questa illusione che affida la sicurezza ed il benessere umano al denaro invece che alle capacità individuali e collettive di provvedere ai propri bisogni. E’ proprio questa illusione che fa del denaro non più il mezzo per facilitare lo scambio di beni reali, ma il fine ultimo di ogni attività umana. Siamo vittime di un circolo vizioso in cui il denaro ci risparmia la fatica di fare ed essere qualcosa, compresa quella di avere relazioni autentiche; meno facciamo questa fatica e più diventiamo incapaci; più cresce la nostra incapacità più aumenta la nostra dipendenza dal denaro.
    Il denaro ha creato una vera e propria dittatura o, come direbbe Ivan Illich, un “monopolio radicale”. Si è imposto come unico mediatore possibile dello scambio, relegando ai margini qualunque altra forma, come il dono, il baratto, il favore, la condivisione, il prestito, tagliando fuori dal mercato chiunque sia privo di denaro. Chi possiede capacità, saperi, forza o qualunque altra cosa, deve innanzitutto entrare nel mercato per convertire queste doti in moneta e solo successivamente potrà trasformare il denaro in altro. Lo scambio, prima del “monopolio radicale”, era anche relazione umana e presupponeva l’instaurazione di un rapporto, oggi non è più così: il commercio è del tutto spersonalizzato, travolto dai ritmi frenetici. I grandi centri commerciali ne sono una eloquente rappresentazione, le casse in cui il cliente si fa il conto da solo utilizzando i codici a barre e il commercio elettronico attraverso internet sono una ulteriore evoluzione che ci evita anche il disagio di dire “buon giorno” e “grazie”. Il denaro è un dio maligno che ci promette libertà, una libertà perversa in quanto libera dalle “catene” della reciprocità, del dono e della riconoscenza.

    Il tempo è denaro


    Il denaro ha un altro effetto drammatico sulla nostra vita: modifica il rapporto con il tempo. Le civiltà passate e culture diverse dalla nostra erano capaci di vivere nel presente. La natura, con i suoi cicli, segnava il tempo, e questo tempo dava il senso della vita umana, giorno per giorno, immersi nel presente, pienamente consapevoli. Il futuro era una preoccupazione metafisica e religiosa.
    Il denaro ci insegna fin da piccoli a proiettarci nel futuro, a progettare, pianificare, risparmiare pensando di godere in un altro tempo il benessere accumulato. Questa idea ha accelerato i ritmi della vita, ma questa accelerazione, anziché liberare tempo, lo rende sempre più scarso. Schiacciati dalla frenesia siamo incapaci di capire il limite e l’accumulo ci sembra sempre insufficiente, così, il momento di vivere il presente non arriva mai e trascorriamo l’intera esistenza come automi impazziti. Lo scrittore Michael Ende ha reso magistralmente questo concetto nella bellissima favola Momo.

    Finanziarizzazione dell’economia


    La finanziarizzazione dell’economia è una delle dinamiche dell’attuale fase della globalizzazione, la naturale conseguenza dell’idea della trasformazione del denaro da mezzo in fine, cioè in merce in sé, non più strumento necessario a scambiare beni reali, ma capace di produrre ricchezza, cioè di autoriprodursi. I luoghi in cui avvengono questi processi magici sono le borse ed il mercato finanziario globale in cui circolano prodotti dai nomi inglesi come future swap, optino call, swaption e altri che in realtà sono qualcosa di molto simile a schedine del totocalcio e biglietti della lotteria, se non fosse che questo enorme casinò posa le sue fondamenta sulle ossa e sulla carne di cittadini e lavoratori che spesso restano stritolati tra gli ingranaggi di questa tragica roulette.
    Chi detiene capitali decide su chi scommettere, scegliendo tra azioni, fondi pubblici e valute sperando che vada bene. Ma il mercato non crea ricchezza dal nulla, così, per ogni vincitore, ci sono sempre dei perdenti. A ciò si aggiunge che il mercato può essere pilotato e spesso i grandi investitori costruiscono fortune smembrando aziende, licenziando migliaia di lavoratori o portando al collasso l’economia di interi paesi con gravi conseguenze per chi ci vive. E’ ormai una consuetudine vedere impennate dei titoli di borsa di fronte a licenziamenti di massa.
    I mercati dei cambi oggi non rispecchiano l'effettivo stato economico di un paese: il tasso di cambio fra le monete è determinato non dall'ingresso o dalla fuoriuscita di capitali dall'economia o da indicatori economici come il deficit della bilancia commerciale, il deficit fiscale ecc., ma dagli speculatori internazionali che acquistano oggi una moneta per spostarsi su un'altra domani stesso, tutti insieme in un cartello con un unico obiettivo comune: fare profitti.
    In questo modo il mercato finanziario crea bolle speculative enormi. Nel 1995 il volume di valuta scambiata a livello mondiale è stato di 1500 milioni di dollari al giorno, cioè una cifra 30 volte superiore al prodotto nazionale lordo di tutti i paesi industrializzati messi insieme. Di questo volume solo il 3% era formato da investimenti concreti, mentre il resto era speculazione. Solo venti anni fa la quota di speculazione sul volume commerciale totale era appena il 7%. Buona parte di queste speculazioni avviene secondo un gioco chiamato “swap deal”: una moneta viene venduta pagando solo un piccolo anticipo su un "contratto" che sarà perfezionato dopo qualche giorno; ma intanto, dopo pochissimo, la moneta sarà rivenduta al nuovo tasso di cambio. Questi “contratti” sono pura speculazione, non hanno nulla a che vedere con gli investimenti e servono solo a raccogliere i profitti dei ciclici movimenti di mercato. Maggiori sono le fluttuazioni dei tassi di cambio, maggiori sono le attività speculative collegate. Non si capisce perché i governi mondiali consentano questo tipo di operazioni dato che non producono nessun beneficio all’economia. Forse perché chi controlla quantità di capitali superiori alle riserve delle banche nazionali ha il potere di condizionare pesantemente anche le scelte politiche.

    Denaro per la guerra


    “Il denaro è il fondamento della guerra” diceva Cicerone. Come ogni altra iniziativa economica la guerra richiede un investimento finanziario per essere preparata e combattuta e il bottino darà la misura del profitto. I più alti aumenti del prodotto nazionale lordo degli Stati Uniti tra 1900 e 1975 si sono riscontrati durante la prima guerra mondiale (+15%), la seconda guerra mondiale (+45%) e durante la guerra di Corea (+20%).
    All’inizio degli anni ’90 i principali destinatari delle armi italiane erano i paesi della Nato (80% delle nostre esportazioni) ma già nel 2000 i paesi del sud del mondo avevano raggiunto il 70% dell’esportazione italiana. Tra questi figurano nazioni in conflitto (Pakistan e India) nazioni con conflitti interni o regionali (Algeria, Israele), nazioni che violano i diritti umani (Turchia), paesi poverissimi (Mauritania: 2,3% del PIL in armamenti e 243% di indebitamento).
    Le banche e la finanza in genere giocano un ruolo centrale nel commercio di armi da un paese all'altro, sia quando il commercio è illegale, attraverso operazioni di riciclaggio di denaro sporco, sia quando è "legale", in quanto gli istituti di credito svolgono un ruolo di mediazione e garanzia. La necessità per produttori, commercianti e compratori d’armi di appoggiarsi alle banche deriva da esigenze commerciali: presenza internazionale, fluidità e sicurezza nei pagamenti, possibilità di avere anticipi e crediti. Inoltre, le banche hanno "buoni” motivi per accettare un ruolo nel traffico delle armi essendo un mercato dove sono spesso coinvolti gli stati, clienti di cui, in genere, si esclude la possibilità di bancarotta. Gli operatori privati che svolgono funzioni-chiave sono "clienti importanti", produttori e mediatori/commercianti dai conti di grossa entità. In più, per svolgere questo compito, gli istituti bancari ricevono un adeguato "compenso di mediazione".
    I risparmiatori depositano i loro risparmi in banca e spesso non sanno che quei loro soldi potrebbero essere usati per preparare una guerra che provocherà morte e distruzione.

    I paradisi fiscali


    Il termine “paradiso fiscale” si usa per indicare luoghi o regioni in cui la ricchezza subisce tassazioni inferiori rispetto ai paesi di provenienza e che vengono utilizzati a scopo di elusione fiscale. In pratica la sede di un’impresa viene registrata in una di queste zone affinché sia soggetta ad una fiscalità ridotta. In alcuni casi, nei paradisi fiscali vengono spostate anche le attività produttive reali. Anche singole persone utilizzano spesso lo stratagemma di prendere la residenza in luoghi in cui l’imposizione fiscale è ridotta.
    La normativa italiana prevede alcune norme anti-elusione per le società che hanno sedi o filiali in uno di questi territori, ma si tratta di misure molto blande.

    Le lavanderie del denaro sporco


    Dove c'è un crimine che produce dei guadagni, quasi sempre c'è un'organizzazione finanziaria che ricicla il denaro. Riciclare denaro sporco significa prendere denaro derivante da un crimine (furto, corruzione, evasione fiscale, spaccio di droga, traffico di armi...) e farlo riemergere dalla clandestinità con operazioni fittizie, in pratica, reinvestire capitali illeciti in attività lecite.
    Questa operazione di "lavaggio" è un servizio prestigioso offerto dagli istituti finanziari che beneficiano del segreto bancario, cioè che non devono rendere conto a nessuno sulla provenienza del denaro che viene depositato presso i loro sportelli. In sostanza, al denaro sporco viene fatta fare una serie di passaggi tra vari istituti, magari passando attraverso qualche paradiso fiscale, per ritornare bello pulito su un qualche conto corrente, pronto per essere usato.

    Il difficile accesso al credito


    Il mercato finanziario mette in contatto chi offre e chi domanda denaro. Chi ha soldi da investire non fa molta fatica a trovare una forma di risparmio, ma chi di soldi ha bisogno ha grossi problemi a reperirlo. Chiunque abbia provato a chiedere un prestito sa quanto sia difficile. Occorre fornire innumerevoli garanzie patrimoniali e dimostrazioni di affidabilità. In estrema sintesi il sistema finanziario concede prestiti a chi ha già un certo livello di ricchezza, chi invece è completamente sprovvisto di risorse materiali (le uniche che il sistema finanziario riconosca) non ha speranze di accedere al credito. Questa prassi crea il mercato finanziario parallelo ed illegale dell'usura. In questo mercato si chiedono meno garanzie reali, ma a fronte di tassi di interessi molto alti. L'usuraio si garantisce la restituzione del prestito e degli interessi attraverso la minaccia della violenza. Moltissime famiglie cadono vittime di questo mercato, una vera e propria spirale senza uscita. In Italia il mercato dell'usura è in mano ad organizzazioni criminali di stampo mafioso.
    Nel sud del mondo molte famiglie, al limite della disperazione, per sfamare i propri figli, ricorrono al prestito usuraio, a volte impegnano gli stessi figli come garanzia del prestito; questa è la strada che porta molti bambini alla schiavitù. Al di là di queste situazioni drammatiche, esiste in tutto il mondo una moltitudine di persone, piccole imprese, organizzazioni, che trovano grande difficoltà a ricevere credito, poiché hanno caratteristiche ed esigenze che non concordano con gli obiettivi e le logiche di funzionamento del sistema finanziario.

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