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    30 settembre 2006 - Michele Altomeni
    Fonte: Comportamenti Solidali

    Lavorare stanca

    La tematica del lavoro e dello sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo ha attraversato la storia. Il lavoro è stato un elemento caratterizzante di tutte le civiltà, le diverse epoche e i diversi popoli hanno visto mutare il modo di lavorare, il ruolo del lavoratore nella società e l’idea che del lavoro hanno le persone.
    In Occidente, il Novecento, rispetto al lavoro, ha vissuto grandi trasformazioni: da un lato quella tecnologica che ha progressivamente modificato il ruolo umano nella produzione, dall’altra la grande rivoluzione culturale che ha fatto del lavoro un elemento fondamentale della società, riconoscendo al lavoratore una serie di diritti. Allo stesso tempo, nei vari sud del mondo, soggetti prima al colonialismo (politico-militare), poi al neocolonialismo (economico-finanziario), il lavoro ha assunto il volto feroce che stava perdendo in Occidente, quello dello sfruttamento disumano, della schiavitù, della negazione dei più elementari diritti della persona e della sua dignità.
    Il nuovo secolo si è aperto all’insegna di nuove trasformazioni, identificate con il termine di globalizzazione, un fenomeno che sembra investire in pieno la società nelle diverse aree del pianeta, nei suoi vari aspetti. Il lavoro, ancora una volta, è al centro di questa nuova rivoluzione.

    Il lavoro nei paesi ricchi

    Negli ultimi anni, nonostante lo sviluppo economico e l’aumento dei profitti delle imprese, le condizioni di lavoro nei paesi ricchi sono andate progressivamente peggiorando sotto vari aspetti. La struttura occupazionale ha subito una profonda trasformazione: dal 1965 l’occupazione nei servizi è cresciuta incessantemente, fino a raggiungere circa i 3/5 della forza lavoro nel 1990. Contemporaneamente, l’occupazione nel settore agricolo si è ridotta fino a diventare irrisoria (7%), mentre è calata sensibilmente anche l’occupazione nell’industria (dal 37% al 26%). A partire dagli anni ‘80 è costantemente aumentato il peso dei lavoratori indipendenti, che comprendono imprenditori veri e propri, ma soprattutto ex lavoratori dipendenti diventati (più o meno volontariamente) titolari di partita IVA o collaboratori che lavorano per uno o più committenti. Allo stesso tempo si sono diffusi in modo crescente contratti di lavoro subordinato “atipici”, e se la quota di lavoratori a tempo determinato resta ancora bassa sul totale, occorre considerare che attualmente, ogni due nuovi assunti, uno è a tempo determinato, il che indica la tendenza della precarizzazione in corso. Questi lavoratori non beneficiano delle stesse garanzie sociali delle generazioni precedenti: non hanno la stessa copertura assicurativa e previdenziale e non hanno la certezza del posto di lavoro.
    La disoccupazione è un fenomeno ormai strutturale, cioè non più legato a particolari momenti di crisi, ma una costante dello sviluppo del capitalismo nella fase della globalizzazione. La tecnologia va a sostituire sempre più lavoratori nei vari settori e a ciò si aggiunge la delocalizzazione della produzione in paesi dove lo sfruttamento della manodopera è incontrastato. Nei paesi dell’OCSE, tra il 1990 e il 1995, la produzione è cresciuta del 3%, mentre l’occupazione è diminuita dell’8%.
    Accanto alla disoccupazione cresce l’orario e l’intensità del lavoro. In occidente, da almeno 25 anni il tempo di lavoro dei salariati si fa sempre più invadente, intenso, veloce. Anche nel mercato dei servizi, da molti elogiato come paradiso del lavoro leggero, pulito e gratificante. I dati ufficiali sono ingannevoli perché non tengono conto del lavoro sommerso e della quantità di tempo che i lavoratori concedono “volontariamente” alle imprese per provare la propria fedeltà. Alla base di questo fenomeno c’è soprattutto una strisciante riduzione del potere di acquisto dei salari che avanza da oltre un ventennio. Altri elementi sono la paura generata dalle numerose ondate di licenziamenti a cui si aggiungono fattori di ricatto come la disoccupazione o le delocalizzazioni. Negli Stati Uniti un salariato maschio è tenuto a passare in media circa 50 ore a settimana sul posto di lavoro; un 10% supera abitualmente le 60 ore.
    Si calcola che in Italia il lavoro nero riguardi circa 3,5 milioni di lavoratori (il 15% dell’occupazione). Secondo uno studio dell’Eurispes questo rappresenta una frode fiscale annua di 30 miliardi euro. Il fenomeno del lavoro irregolare in Italia è cresciuto dell’11% tra il 1992 e il 1999, mentre l’occupazione totale è scesa, nello stesso periodo, dell’1,5%. Il fenomeno è alimentato soprattutto dallo sfruttamento degli immigrati. E’ irregolare il 30% dell’occupazione agricola, il 6% di quella industriale, il 16% nelle costruzioni, il 15% nel commercio e il 30% nei trasporti. Nel complesso, i ¾ dei lavoratori irregolari sono occupati nel settore dei servizi.
    La precarizzazione del lavoro passa anche attraverso la diffusione del lavoro interinale: il lavoratore non ha più un contratto a tempo indeterminato, ma viene chiamato o meno in base alle necessità delle imprese attraverso apposite agenzie.

    Il lavoro nei paesi poveri

    Con la globalizzazione, il sud del mondo è diventato un grande serbatoio di manodopera e dalla produzione locale tradizionale volta al mercato interno si è passati ad una produzione orientata all’esportazione. Nell’economia globale il lavoro nel sud del mondo assume forme disumane e questa situazione è spesso conseguenza della politica economica imposta dall’Occidente attraverso organismi sopranazionali come FMI, Banca Mondiale e WTO.
    Nonostante il calo degli ultimi anni l’agricoltura resta il principale settore di occupazione dei paesi del sud del mondo, occupando i 3/5 dei lavoratori. Seguono i servizi e l’industria che resta all’ultimo posto.
    Gran parte della popolazione lavora nell’economia informale, cioè fuori dalle regolamentazioni previste dalle leggi (contratti, autorizzazioni, licenze…); sono sia lavoratori dipendenti che autonomi. Il settore informale, oltre ad avere retribuzioni molto più basse, spesso è occasione di violazione dei più elementari diritti dei lavoratori. In India e Pakistan circa il 75% degli occupati nell’industria manifatturiera lavora in maniera “informale”; nell’Africa Subsahariana l’economia informale riguarda il 60% della forza lavoro urbana.
    Numerosi documenti internazionali sanciscono e ribadiscono i diritti dei lavoratori, tra cui il diritto al lavoro, la libertà di scegliersi un impiego, il diritto alla sicurezza, al riposo, ad associarsi in un sindacato… Numerosi di questi diritti sono ancora solo sulla carta e milioni di lavoratori in tutto il mondo se li vedono quotidianamente negati.
    Ancora oggi sono numerose le sparizioni, gli arresti arbitrari, i processi iniqui, le torture e le condanne a morte di sindacalisti. Esistono stati che non consentono l’attività di sindacati liberi e la Confederazione Internazionale dei Sindacati Liberi denuncia la violazione dei diritti sindacali in 119 paesi.
    La schiavitù, formalmente vietata ovunque, torna ad emergere nella globalizzazione in una nuova forma che degrada l’essere umano fino a vero e proprio oggetto. Gli schiavi sono generalmente sfruttati per lavori semplici: la maggior parte nell’agricoltura, ma anche in numerose altre attività: produzione di mattoni, miniere, prostituzione, lavorazione di pietre preziose, di stoffe, tappeti, lavoro domestico… Oggi non si è più schiavi in base al colore della pelle o alla religione, ma a causa della precarietà, della debolezza e dello stato di bisogno. Nel vecchio tipo di schiavitù lo schiavo aveva un elevato valore economico e il proprietario tendeva a salvaguardarne la sopravvivenza. I nuovi schiavi invece non hanno nessun valore perché sono in sovrabbondanza e chi li sfrutta lo fa fino ai limiti fisiologici. Si calcola che ai tempi della schiavitù “legale” uno schiavo fruttava il 5% di profitti rispetto al proprio costo, oggi, ad esempio in India, frutta almeno il 50%. La forma più diffusa di schiavitù è quella derivante da un debito, in cui un essere umano si offre a garanzia di un prestito, ma essendo i prestiti altamente usurai si ritrova schiavo a vita.
    I nuovi schiavi entrano in relazione con noi perché ogni giorno compriamo oggetti che potrebbero essere prodotti da loro, ma anche perché, come lavoratori, nel mercato globale, ci troviamo a competere con il lavoro estorto e gratuito. Nel mondo si calcolano almeno 27milioni di nuovi schiavi dell’economia globale.

    Forza lavoro e disoccupazione

    La crescita demografica produce un costante aumento della forza lavoro mondiale. Nel 1950 questa era composta da 1,2 miliardi di persone, nel 1998 era di 2,9 miliardi. L’occupazione cresce a ritmi più bassi della popolazione attiva, e questo determina un costante aumento della disoccupazione. Tra il 1975 e il 1990 la popolazione è aumentata del 29%, l’occupazione del 28%. Mentre la produttività è aumentata ad un ritmo doppio.
    In passato la crescita economica produceva posti di lavoro, nel mondo della globalizzazione ciò non accade più e gli investimenti, il più delle volte, creano nuova disoccupazione.
    Una ricerca realizzata in Germania ha calcolato che 100 miliardi di Marchi di investimento tra il 1950 e il 1960 producevano 500.000 posti di lavoro; alla fine degli anni 60 ne produceva appena 40.000; nel quinquennio successivo ne sopprimevano 100.000 e alla fine degli anni 70 ne distruggeva circa 500.000. Questo spiega perché mentre il PIL europeo negli ultimi 20 anni è quasi triplicato, la disoccupazione è balzata alle stelle: essa non è il prodotto della crisi dello sviluppo, ma dello sviluppo stesso, dato che le imprese investono soprattutto in tecnologia che rende sempre più marginale il ruolo dell’essere umano nella produzione. 20 anni fa un operaio di Mirafiori (fabbrica della FIAT) produceva in media 19 auto all’anno, oggi ne produce 70. Il ciclo della siderurgia può produrre gli stessi volumi di 10 anni fa con 1/5 della forza lavoro che serviva allora.
    Nel mondo ci sono circa 900 milioni di disoccupati, in Europa 18 milioni, cioè il 10,8% della forza lavoro, in Italia 2.756.000. Dal 1970 al 2000 la disoccupazione nel nostro paese è passata dal 3,2% al 11,8%, la disoccupazione giovanile è del 25% e il 40% dei disoccupati lo è per più di un anno. A partire dal dopoguerra il settore dei servizi ha assorbito gran parte dei lavoratori espulsi dall’industria, ma dagli anni ’70 la tecnologia ha cominciato ad espellere lavoratori anche dal terziario: la più grande impresa della telefonia americana (AT&T) gestisce il 50% in più di chiamate con il 40% in meno di dipendenti.
    Negli anni ’80, grazie alle politiche neoliberiste, gli imprenditori americani sono riusciti a “limare” 13 milioni di dollari per ora lavorativa eliminando 1,2 milioni di posti di lavoro. Molte delle persone licenziate hanno trovato occupazione in poco tempo, ma nella stragrande maggioranza dei casi si è tratto di lavori meno retribuiti e meno garantiti
    Secondo le statistiche ogni punto percentuale in più nel tasso di disoccupazione comporta una crescita del 6,7% degli omicidi, del 3,4% di crimini violenti e del 2,4% di reati contro il patrimonio. L’aumento della criminalità è figlio della globalizzazione e non si combatte con la repressione, ma con politiche sociali adeguate.

    Il salario

    L’aumento dei salari è stato motivo di tante lotte nella storia, ma negli ultimi anni i lavoratori hanno perso molto del loro potere contrattuale.
    Il divario dei redditi si va sempre più approfondendo: nel 1870 il reddito medio per abitante nel nord del mondo era 11 volte più elevato che nei paesi poveri, nel 1960 il rapporto era di 38 volte e nel 1985 di 52 volte. Un ingegnere di Francoforte guadagna il triplo di un operaio della sua città, ma quasi 8 volte più di un ingegnere del Kenia che a sua volta guadagna 18 volte più di un operaio tessile del suo paese. Quindi l’ingegnere di Francoforte guadagna 56 volte più dell’operaio tessile del Kenia. Un operaio qualificato di Francoforte guadagna 14 volte rispetto al suo omologo del Kenia, 30 volte rispetto a quello di Jakarta, 50 volte rispetto ad uno centroafricano. Se incrociamo a queste differenze quelle di genere il reticolo raddoppia.
    Nella fase del boom economico (1960-73) in Occidente i salari sono progressivamente aumentati, erodendo quote consistenti di profitto: nei paesi OCSE, tra il ‘60 e il ‘65 la quota di profitto si è ridotta dell’1,1% l’anno; tra il ‘65 e il ‘70 dell’1%; tra il ‘70 e il ‘72 del 3,9%; tra il ‘73 e il ‘75 ha raggiunto ben il 24,4% all’anno, per tornare, tra il ‘75 e il ‘79 a salire del 6% annuo. Nella fase della globalizzazione il fenomeno si è invertito e i salari reali sono stati progressivamente erosi. Negli USA, a fronte di un aumento reale del PIL del 33%, la remunerazione oraria dei lavoratori non dirigenti è scesa del 14% e, in media, i lavoratori tra i 25 e i 34 anni hanno subito una contrazione dei salari reali del 25%. Questo perché lo sviluppo tecnologico e le delocalizzazioni, generando disoccupazione, hanno consentito di accrescere il potere contrattuale delle aziende. La concorrenza globale impone alle imprese di tagliare sui costi di produzione, a partire dal costo del lavoro, così i salari reali si sono progressivamente ridotti. Negli USA, fino a 30 anni fa, la forza lavoro era la meglio pagata al mondo, oggi viene definita “a basso costo”. Questo deterioramento ha coinvolto l’80% degli uomini e il 60% delle donne.
    Nel regime di concorrenza globale i singoli sindacati locali non riescono più ad opporsi ad un capitalismo ormai mondiale e i lavoratori vengono messi in concorrenza tra loro e sono costretti ad accettare condizioni sempre più precarie. Per rispondere al mercato globale è necessario che anche i sindacati trovino il modo di coordinarsi a livello internazionale, altrimenti rischiano di restare imprigionati in una prospettiva perdente.

    L’insicurezza sul lavoro

    Nonostante il progresso tecnologico e le severe leggi sulla sicurezza, nei paesi ricchi gli incidenti sul lavoro continuano a compiere vere e proprie stragi. Nei paesi poveri il fenomeno appare ancor più tragico in quanto non esistono leggi o non vengono fatte applicare. La globalizzazione neoliberista contribuisce ad aumentare i pericoli sul posto di lavoro: da una parte la ricerca del massimo ribasso nei costi produce un deterioramento delle condizioni di sicurezza perché si risparmia sui sistemi di protezione e sulle manutenzioni, dall’altra si compiono veri e propri abusi in cui apprendisti o ragazzi in formazione vengono utilizzati per mansioni non dovute e pericolose.
    Nel mondo, nel 1997 sono morte 220.000 persone per incidenti sul lavoro, 120 milioni hanno subito un infortunio e 160 milioni si sono ammalate a causa dell’attività lavorativa. Nell’unione Europea, nel 1993 sono morti 8.000 lavoratori e 10 milioni hanno subito infortuni o malattie professionali. In Italia, dal dopoguerra ad oggi, sono morti 100 mila lavoratori e si calcola che ogni giorno muoiono 4 persone sul lavoro. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rilevato come negli ultimi 20 anni si sia verificato uno spostamento dei rischi tradizionali perché le lavorazioni più nocive per la salute e l’ambiente sono state trasferite dai paesi industrializzati ai paesi poveri, dove i governi, per incentivare gli investimenti esteri, tendono a concedere ogni sorta di deroga. Il subappalto da parte delle multinazionali a piccole imprese rende ancora più difficili i controlli.
    Secondo i dati dell’INAIL il costo complessivo degli infortuni sul lavoro in Italia si aggira sui 30 miliardi di euro l’anno, compresi i costi indiretti (il 3% del PIL).

    Piccoli lavoratori

    Il lavoro minorile non è un fenomeno recente, ma in alcuni paesi è in crescita (come nell’est europeo), mentre in altre zone sta cambiando forma, trasformandosi da “lavoro domestico” a lavoro esterno, spesso in condizioni peggiori.
    Sono frequenti gli scandali per la scoperta di lavoro minorile in stabilimenti che producono per qualche multinazionale, ma oltre alla produzione per le esportazioni (articoli sportivi, abbigliamento, giocattoli, tappeti) interessa molti altri settori: i bambini lavoratori nel mondo sono braccianti, minatori e sono milioni i piccoli domestici a servizio di ricche famiglie, spesso pagati con il solo cibo.
    Le condizioni di povertà non consentono alle famiglie di sostenere le spese per l’istruzione dei figli, che sono inviati a lavorare per contribuire al sostentamento delle famiglie. I bambini sono lavoratori docili ed ubbidienti e i datori di lavoro li preferiscono perché, pur essendo produttivi quasi quanto gli adulti, percepiscono paghe molto inferiori. In questo modo si innesca un circolo vizioso per cui i bambini lavoratori causano il licenziamento degli adulti, l’ulteriore impoverimento delle famiglie e quindi ancora la necessità di far lavorare i più piccoli.
    Il lavoro minorile è illegale in gran parte dei paesi del mondo, eppure il fenomeno persiste perché le misure per contrastarlo sono inadeguate. Nel mondo ci sono circa 120 milioni di bambini che lavorano a tempo pieno, tra i 5 e i 15 anni. Il 61% si trova in Asia, il 32% in Africa e il 7% in America. Per altri 130 milioni il lavoro è un’attività a tempo parziale dopo la scuola, per un totale di 250 milioni di bambini lavoratori. Negli USA, secondo l’OIL10, lavora il 28% dei minori di 15 anni. In Italia i bambini lavoratori sono stimati in 500.000. Accanto ai bambini italiani sempre più numerosi sono i bambini stranieri immigrati sfruttati in lavori degradanti.
    Il fenomeno della prostituzione minorile o della pedo-pornografia è tristemente noto. Riguarda spesso bambini abbandonati o rapiti, portati nei bordelli o mandati per strada e spesso l’abuso sessuale si accompagna a vere e proprie torture. La prostituzione minorile riguarda 500.000 bambini in Brasile, 300.000 in Thailandia, 100.000 nelle Filippine, 300.000 in India, 50.000 in Vietnam, 40.000 in Pakistan e ben 100.000 negli Stati Uniti.
    Altro fenomeno odioso è quello dei bambini soldato. Oltre 300.000 minori sono impiegati in conflitti, 120.000 in Africa. La maggioranza ha tra i 15 ed i 18 anni, ma ci sono reclute anche di 10 anni o meno. Alcuni sono soldati a tutti gli effetti, altri sono impiegati come portatori di vettovaglie e munizioni. Sebbene in misura minore sono frequenti anche le bambine costrette al seguito degli eserciti, che subiscono spesso violenze sessuali. Molti muoiono in guerra, quelli che sopravvivono si portano dentro per tutta la vita un’esperienza devastante sul piano psicologico e fisico.

    Il lavoro delle donne

    Il "peso" della povertà cade in misura maggiore sulle donne che sugli uomini. I guadagni delle donne sono ovunque più bassi di quelli degli uomini, il loro carico di lavoro è più alto e il lavoro domestico non riceve alcuna considerazione economica o sociale. Nel mondo, le donne svolgono i 2/3 del lavoro guadagnando appena il 5% del reddito globale e possiedono meno dell’1% delle proprietà. Le Nazioni Unite hanno stimato che a metà degli anni ‘90 le donne che vivevano in povertà erano il 50% in più rispetto a 30 anni prima.
    In molti paesi la discriminazione verso le donne ha conseguenze su diversi fronti: spesso succede che le bambine ricevano meno cibo dei fratelli e in generale l'alfabetizzazione femminile è inferiore rispetto a quella maschile; le donne pagano le conseguenze di questa discriminazione anche sul piano sanitario, basti pensare che nel sud del mondo muoiono 460 donne ogni 100.000 parti per mancanza di assistenza; a questo si aggiungano le discriminazioni “giustificate” dalle varie religioni, il macabro rituale degli stupri etnici nelle situazioni di guerra, le varie forme di violenza domestica e il traffico internazionale della prostituzione.
    Nei paesi ricchi il tasso di disoccupazione delle donne è più alto di quello degli uomini, anche se varia da paese a paese: in Italia la disoccupazione femminile supera quella maschile di circa 7 punti in percentuale, mentre la media europea è di 3 punti.
    In tutti i paesi il salario medio femminile è inferiore a quello maschile, anche perché la maggior parte delle donne occupate è concentrata nei lavori meno retribuiti e più precari. Nei paesi industrializzati il 65-90% dei lavori part-time è svolto da donne, ma spesso le donne sono pagate meno anche a parità di lavoro. In molti paesi del sud del mondo le donne, fin da bambine, subiscono un carico di lavoro superiore a quello dei maschi e per questo molto spesso debbono rinunciare all’istruzione. Nella maggioranza dei paesi poveri la forza lavoro femminile è concentrata nel settore agricolo. In molti paesi africani le donne costituiscono il 60% della forza lavoro agricola e producono fino all’80% delle derrate alimentari.
    Un settore del tutto particolare del lavoro femminile è il mercato del sesso che comprende la prostituzione in tutte le sue varianti, dalla tratta delle schiave al turismo sessuale. Sempre più sono le donne provenienti da vari paesi, che immigrando in Occidente con il miraggio di un posto di lavoro si ritrovano schiavizzate da organizzazioni criminali. Contemporaneamente, in molti paesi del sud del mondo, si diffonde la piaga dello sfruttamento sessuale di donne e bambini, soprattutto nel sud-est asiatico e in alcuni paesi dell’America Latina.

    Il lavoro migrante

    I lavoratori immigrati in Italia sono circa 2.300.000 su circa 3.000.000 di stranieri presenti. Di questi, il 7% svolge un lavoro autonomo, mentre i lavoratori in nero sono stimati introno ai 300.000. I lavoratori immigrati, soprattutto se clandestini, sono facilmente vittime dello sfruttamento “nero” perché non riescono a far valere i propri diritti e sono costretti ad accettare le peggiori condizioni imposte dai datori di lavoro. I lavoratori stranieri sono il 2,9% del totale dei lavoratori, ma ben il 12,3% dei lavoratori “in nero”. Il fenomeno è diffuso soprattutto nel sud Italia, particolarmente in settori come l’agricoltura e l’edilizia.
    La manodopera straniera si caratterizza per la sua flessibilità: più disponibile agli spostamenti e a lavori meno appetibili, stagionali e scarsamente retribuiti. Molti lavoratori immigrati fanno grandi sacrifici per risparmiare una parte del loro stipendio ed inviarlo alle famiglie nei paesi di provenienza. Le rimesse rappresentano un’importante fattore di sviluppo nei paesi di origine: nel 1997, per la prima volta, le rimesse degli stranieri in uscita hanno superato le rimesse in entrata degli italiani all’estero.

    Il lavoro agricolo

    Nonostante la forte diminuzione degli ultimi decenni, l’agricoltura rimane il settore che occupa la maggior parte della forza lavoro nel mondo, ma esiste un forte squilibrio tra paesi poveri, dove l’agricoltura occupa i 3/5 dei lavoratori, e il nord del mondo, dove invece i lavoratori agricoli sono rimasti un’ esigua minoranza (7%).
    Nei paesi industrializzati la meccanizzazione agricola, a partire soprattutto dalla seconda metà del ‘900, ha permesso di aumentare la resa dei terreni sostituendo gran parte della manodopera. Nei paesi poveri questo processo sta avvenendo a ritmi molto più lenti e la manodopera rimane il principale fattore su cui si basa l’agricoltura. La meccanizzazione permette di sfruttare nuove terre ed ampliare le superfici coltivate, ma allo stesso tempo rischia di espellere un gran numero di lavoratori dalle campagne e aggravare ancora di più i livelli di disoccupazione.
    Nonostante il divario tecnologico, le condizioni di lavoro fanno sì che in vari casi la produzione agricola dei paesi poveri sia più competitiva di quella del nord, per questo i governi dai paesi ricchi investono ingenti risorse in sovvenzioni per i loro agricoltori garantendo una sorta di protezionismo nazionalista.
    Nei paesi del sud l’agricoltura tradizionale svolge anche un importante ruolo di autosussistenza. L’arrivo del colonialismo prima e del neoliberismo poi ha introdotto le piantagioni su larga scala: milioni di piccoli contadini sono stati espulsi dalle loro terre diventate proprietà di multinazionali o ricchi proprietari terrieri; le famiglie hanno perso l’autosufficienza alimentare e sono diventate dipendenti dei datori di lavoro esterni. E’ questo uno dei principali fattori della fame nel mondo e per questo numerosi movimenti popolari si battono per una riforma agraria che restituisca le terre ai contadini.
    Nei paesi poveri solo 50 milioni di agricoltori vivono dove l’agricoltura è altamente meccanizzata. I piccoli coltivatori diretti rappresentano più della metà dei poveri delle aree rurali, eppure producono fino all’80% delle riserve alimentari del sud del mondo. Gran parte di questo lavoro è compiuto dalle donne.
    Molti agricoltori nei paesi poveri lavorano direttamente o indirettamente per il mercato mondiale producendo banane, caffè, cacao, tè e altri prodotti destinati ai supermercati del nord del mondo. Lavorano in condizioni durissime per salari irrisori, spesso a contatto con sostanze chimiche altamente nocive e completamente in balia dei mediatori che si occupano di commercializzare la loro produzione.

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    Note: 10) Organizzazione Internazionale del Lavoro

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