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    30 settembre 2006 - Michele Altomeni
    Fonte: Comportamenti Solidali

    La salute e la sanità

    La nostra società ha affidato alle istituzioni mediche e alle industrie farmaceutiche la risposta al malessere generale procurato dal nostro stile di vita e dal modello di sviluppo collettivo, dando per scontato che l’inquinamento, la cattiva qualità dei cibi, il livello di stress e le abitudini personali non si possano mettere in discussione, e sia quindi necessario intervenire alla fine del processo per combattere i sintomi delle varie patologie.
    Il modo in cui si affrontano le malattie fa parte della cultura di un popolo. La cultura occidentale negli ultimi secoli si è basata sul pensiero cartesiano e meccanicistico. La biologia, e quindi la medicina, partono dall’idea che l’essere umano sia una specie di macchina, che il corpo possa essere analizzato scomponendolo nelle sue parti, che la malattia sia una disfunzione in qualche componente di questa macchina e che il ruolo del medico consista nell’intervenire fisicamente e chimicamente per correggere il cattivo funzionamento del meccanismo. Nel tempo la medicina occidentale si è concentrata su parti del corpo sempre più piccole (dagli organi, alle cellule, alle molecole) perdendo sempre più di vista il paziente nel suo insieme.
    La nostra medicina popolare e la medicina di altre culture vedono la malattia come disturbo dell’intera persona, che oltre al corpo riguarda la mente e la sua relazione con il mondo. Per questo non si occupano solo dell’organismo, ma intervengono anche sulla psiche, cercando di stimolare le facoltà di reagire alla malattia che ogni persona ha in sé. Il passaggio dalla medicina tradizionale a quella scientifica nella nostra società si è accompagnato ad un passaggio da una pratica principalmente femminile ad una professione dominata dai maschi.
    Nell’Ottocento Louis Pasteur segnò una tappa cruciale della medicina occidentale dimostrando una correlazione tra batteri e malattia. Fino a quel momento esisteva un acceso dibattito tra due correnti di pensiero: quella secondo cui la malattia dipende da singoli fattori e quella per cui è frutto dell’azione congiunta di varie cause. Pasteur, studiando il ruolo dei batteri, contribuì in maniera decisiva alla vittoria della prima corrente e all’imposizione di una visione riduzionistica della scienza medica. In realtà Pasteur fu molto meno riduzionista dell’interpretazione semplicistica data dai suoi discepoli, e sapeva bene che un organismo ospita normalmente una grande quantità di microbi, e che solo in determinate circostanze date dall’interrelazione di altri fattori questi sono capaci di nuocere. La scienza medica rimosse questa consapevolezza e proseguì per la sua strada, concentrandosi sempre più sulla malattia e sempre meno sul paziente e gettando le basi per una crescente specializzazione.
    Nel corso del XX Secolo la scienza farmaceutica sviluppò vaccini, antibiotici e poi farmaci psicoattivi (tranquillanti, antidepressivi). I vari medicinali, nel tempo, rivelarono le loro controindicazioni. L’approccio biomedico ha prodotto risultati importanti, permesso di combattere molti mali e di salvare vite, ma affrontando il problema della salute umana in maniera parziale trascura le reali cause del male, concentrandosi sui sintomi.
    Nonostante le grandi risorse investite nel nostro modello sanitario e nonostante i grandi progressi scientifici, tutti si rendono conto che l’insoddisfazione rispetto alla medicina occidentale è crescente, che esiste una sproporzione enorme tra costi ed efficacia del sistema. I costi continuano ad aumentare, la classe medica e l’industria farmaceutica accumulano sempre più potere, ma il livello generale di salute della popolazione non sembra migliorare in maniera significativa. Se adottassimo un concetto di salute più ampio ci renderemmo conto che la sconfitta di alcune malattie non equivale automaticamente a maggior benessere per la società. Spesso si citano i dati sulla riduzione dell’indice di mortalità per dimostrare i successi della scienza medica. In realtà questi dati si devono principalmente alla riduzione della mortalità infantile, conseguenza solo in parte della medicina, e molto più di altri fattori (alimentazione, igiene ecc.). In più si tratta di dati esclusivamente quantitativi che trascurano una valutazione della qualità della vita. Anche il contributo della medicina alla sconfitta di molte malattie infettive (colera, tubercolosi, tifo) è molto minore di quanto si pensi abitualmente, i benefici dipendono in gran parte da un miglioramento nell’alimentazione e nell’igiene. Mentre dal mondo occidentale sparivano malattie legate alla povertà hanno iniziato a diffondersene altre legate all’opulenza (cancro, diabete, malattie cardiache).

    Nemesi medica

    Ivan Illich, nel suo libro Nemesi medica ed in altri testi dedicati alla medicina, affronta il tema della salute come paradigma della società industriale. Illich afferma che il corpo medico è una classe di sacerdoti che promette un miglioramento illimitato della salute affinché la vita umana migliori, sia prolungata, resa compatibile con le macchine e capace di resistere a ogni sorta di accelerazione, di alterazione e di tensione. Ma questo non fa che rendere la salute sempre più scarsa .
    La medicina occidentale ha privato l’essere umano della sua capacità, intrinseca in ogni cultura, di conciliarsi con la sofferenza, la malattia e la morte, e di essere solidale con gli altri, soggetti alle mede¬sime minacce. Essa si prefigge di sopprimere la sofferenza, eliminare la malattia e lottare contro la morte. L’uomo industriale diventa consumatore di salute e la sofferenza suscita ormai solo una domanda tecnica: come curare o fare sparire questa sofferenza? La sofferenza espri¬me la domanda di maggiori prestazioni sanitarie e oggi sembra più razionale fuggire la sofferenza che affrontarla, anche a costo della dipendenza.
    Il prestigio dei medici, secondo Illich, è ingiustificato sot¬to il profilo tecnico ed è spiegabile soltanto come un rituale magico, rivolto a conseguire obiettivi che per via tecnica o politica non si riescono a raggiungere. Per contrastare questo fenomeno è necessario sprofessionalizzare la cura della salute; combattere la mistificazione e il dominio di un'unica ortodossia e l'esclusione dei guaritori scelti dai pazienti ma non riconosciuti dalla corporazione; impedire che il denaro pubblico venga speso per prescrizione e decisione dei membri della corporazione anziché sotto il controllo dei consumatori; evitare che un professionista abbia il potere di elargire a un qualunque suo paziente un com¬plesso di mezzi terapeutici maggiore di quello che ciascun cittadino per proprio conto potrebbe rivendicare; consentire alle persone di vivere in un ambiente ospitale momenti par¬ticolari della vita: quando si nasce, ci si rompe una gamba, si partorisce, si diventa invalidi o si affronta la morte.
    La nemesi medica produce, come conseguenza estrema, l'espropria¬zione della morte. La morte è un elemento naturale che fa parte della natura umana e ogni cultura ha propri rituali per prepararsi e affrontarla. La medicina occidentale ha diffuso l’idea che la morte vada combattuta ad ogni costo, comprese maggiori sofferenze, ed ha affermato la pratica dell’accanimento terapeutico. Questo accanimento contro la morte fornisce giustificazione e tutta una serie di atrocità, comprese le guerre e il controllo sociale.

    “La fragilità, l'individualità e le connessioni dell'uomo, se vissute consapevolmente, fanno dell'esperienza del dolore, della malattia e della morte una parte integrante della sua vita. La capacità di affrontare questo trio in modo autonomo è essenziale alla sua salute. Nella misura in cui si rimette a una amministrazione tecnica della propria intimità, egli rinuncia a questa autonomia e la sua salute non può non scadere. Il vero miracolo della medicina moderna è di natura diabolica: consiste nel far sopravvivere non solo singoli individui, ma popolazioni intere, a livelli di salute personale disumanamente bassi. Che la salute non possa se non scadere col crescere della somministrazione di assistenza è una cosa imprevedibile solo per l'amministratore sanitario, proprio perché le strategie che questi persegue sono frutto della sua cecità al carat¬tere inalienabile della salute”

    Illich prende in esame anche il paradosso per cui la medicina produce conseguenze negative sulla salute (i cosiddetti effetti collaterali), fenomeno che chiama iatrogenesi.

    La iatrogenesi può essere diretta, quando la sofferenza, la malattia e la morte sono risultato di prestazioni mediche; o indiretta, quando le politiche sanitarie rafforzano un'organizzazione industriale che danneggia la salute. Può essere strutturale, quando illusioni e comportamenti promossi dai medici re¬stringono l'autonomia vitale della gente minandone la ca¬pacità di crescere, curarsi e invecchiare; o quando para¬lizza l'impegno personale stimolato dalla sofferenza, dalla menomazione, dall'angoscia.

    Alla iatrogenesi, la medicina risponde con altri interventi tecnici che non possono che produrre mali iatrogeni di secondo grado.
    Una conseguenza indiretta denunciata da Illich che si è rivelata profetica è il fatto che la classe medica avrebbe trasformato la società in un enorme ospedale, un luogo controllato dalla tecnica che rende artificiale anche i rapporti umani. Nel disperato tentativo di sconfiggere i mali e la morte senza capirli a fondo le istituzioni sanitarie promuovono norme assurde che stanno allontanando l’essere umano dalla vita. Ambienti e cibi sempre più asettici, detergenti capaci di annichilire ogni forma di vita, paranoie sociali che ci rendono diffidenti anche rispetto ad una stretta di mano o un bacio. Tutto questo sta promovendo l’ideale di esseri umani racchiusi in campane di vetro sterilizzate.
    Sul piano sociale, l’istituzione medica, sta espropriando l’essere umano della sua naturale capacità di prendersi cura di sé stesso e dei suoi simili. Questo è il fenomeno che Ivan Illich maggiormente ha esplorato con i suoi scritti in cui denuncia proprio l’attitudine delle diverse istituzioni di privare l’uomo di proprie capacità naturali: così i trasporti privano l’uomo della capacità di muoversi, la scuola della capacità di apprendere e così via.
    Nelle diverse epoche e nelle differenti culture l’essere umano apprende, nel corso della vita, a curare i propri malanni. Questo sapere fa parte del bagaglio culturale che la comunità in cui vive gli trasmette. Nelle situazioni più complesse, in cui non può curarsi da solo, sono le persone a lui vicine a farlo. L’intervento dell’esperto, dello stregone, del saggio, cioè di figure “professionali”, è riservata a casi estremi. L’istituzione medica occidentale ha progressivamente eroso la fascia di “autoguarigione” e di cura comunitaria espandendo il proprio dominio fino a livelli assurdi. Oggi nella nostra società ci si rivolge al medico ed all’industria farmaceutica per un semplice raffreddore e per le innumerevoli patologia la cui cura era patrimonio culturale diffuso.
    La capacità di far fronte alle malattie dovrebbe essere potenziata, ma mai surrogata dall'intervento medico sulla vita delle persone o sulle caratteristiche igie¬niche dell'ambiente.

    "Le condizioni migliori per la salute le offrirà quella società che ridurrà al minimo l'intervento professionale. Quanto maggiore sarà negli individui il po¬tenziale di adattamento autonomo a se stessi, agli altri e all'ambiente, tanto meno sarà necessaria o tollerata una gestione tecnica di tale adattamento."

    Non servono conoscenze troppo complesse per applicare le scoperte fondamentali della medicina moderna, per individuare e curare la maggior parte dei mali curabili, per alleviare la sofferenza del prossimo e accompagnarlo all'incontro con la morte. Ma per riappropriarci della nostra capacità naturale di prenderci cura dobbiamo combattere contro il nostro concetto di medicina concepita come un impresa industriale, nelle mani di produttori (medici, ospedali, laboratori farmaceutici) che incoraggiano la diffusione di procedimenti d'avanguardia costosi e complicati, e riducono così il malato e i suoi familiari allo stato di docili clienti.

    L’industria farmaceutica

    Un modello medico che vede il corpo come una macchina, la malattia come un guasto e individua in batteri e virus i principali responsabili del malessere, concentra le sue forze sulla preparazione di medicinali, ossia di armi che possono combattere i microrganismi ritenuti dannosi o sviluppare processi chimici che contrastino i sintomi. Questi prodotti hanno svolto un ruolo significativo nell’alleviare sofferenze e disagi, ma ad un certo punto si è rotto l’equilibrio ed è subentrata la controproduttività.
    Da un lato, come abbiamo detto, i farmaci hanno cominciato a manifestare la loro iatrogenesi, cioè effetti indesiderati secondari a volte molto peggiori della malattia che contribuivano a combattere. D’altra parte la grande importanza attribuita ai farmaci, nel contesto dell’economia capitalista, ha dato origine ad un pericoloso cortocircuito: le industrie farmaceutiche hanno assunto un grande potere creando l’illusione che il loro interesse coincidesse con l’interesse della salute pubblica, tanto da condizionare pesantemente la politica a loro vantaggio. In nome della promessa della salute perfetta e di una vita sempre più lunga si invoca l’eliminazione di ogni limite alla ricerca, si pretendono enormi finanziamenti e si “ricattano” governi ed istituzioni internazionali. Questa dinamica ha prodotto enormi profitti che hanno generato ulteriore potere di condizionamento.
    Si parla molto dell’abuso di farmaci e del loro uso improprio, ma nessuno assume iniziative serie per contrastare questo fenomeno. Dal canto loro i mezzi di informazione pubblicizzano e promuovono medicinali miracolosi come una qualunque marca di prosciutto o di pannolini, racchiudendo in pillole l’illusione del benessere che non riusciamo più a raggiungere.
    All’abuso dei farmaci contribuiscono anche pratiche perverse che caratterizzano il nostro sistema sanitario, come il comparaggio, che tutti condannano e che nessuno ostacola. Con questo termine si indica la pratica di promuovere la vendita di determinati medicinali premiando i medici che li prescrivono ai pazienti. Per promuovere i propri prodotti le industrie farmaceutiche si avvalgono dei cosiddetti “informatori scientifici”, ossia rappresentanti specializzati nel settore che fanno periodicamente visita ai medici per metterli al corrente delle favolose proprietà della loro merce. Spesso non si limitano a decantarne i benefici, ma si aiutano con sistemi poco ortodossi, al limite della corruzione. In pratica il medico viene informato che se prescriverà un certo quantitativo di un determinato medicinale entro un certo lasso di tempo, riceverà in premio computer, stampanti, televisori, viaggi o altro. Siccome imprese farmaceutiche diverse producono spesso farmaci molto simili tra loro, l’aspettativa del premio induce il medico a prescrivere in ricetta proprio il prodotto che gli garantirà la ricompensa. Cosa ben più grave, numerosi studi dimostrano che il malcostume del comparaggio favorisce spesso la prescrizione di farmaci di cui il paziente potrebbe fare benissimo a meno. Silvio Garattini, un'autorità nel campo della farmacologia tutt’altro che simpatizzante delle medicine alternative, ha affermato, durante un’intervista televisiva, che la pressione propagandistica si traduce in una cifra che va dal 30 al 50% di medicine non necessarie.
    A questo si aggiunga la “disinformazione scientifica” effettuata con altri metodi, ad esempio organizzando convegni medici che in realtà sono vere e proprie iniziative pubblicitarie affidate a luminari ed esperti ben felici di incensare i prodotti della casa farmaceutica che li tiene sul libro paga.
    Comparaggio e disinformazione scientifica sono anche conseguenza del fatto che la ricerca medica è un settore ormai completamente in mano alle imprese private, con lo Stato che svolge una funzione del tutto residuale.
    Il potere delle industrie farmaceutiche e la compiacenza di gran parte della classe medica e di molte farmacie contribuisce alla limitata diffusione dei farmaci generici. Qualche anno fa l'autorità garante della concorrenza e del mercato ha scoperto e condannato un accordo strategico tra le multinazionali e le piccole/medie imprese nazionali volto ad ostacolare la diffusione dei farmaci generici.

    Farmaci generici
    Il medicinale è il prodotto di un lavoro di ricerca e sperimentazione. Chi scopre un nuovo farmaco ha il diritto di brevettarlo, cioè di pretendere un corrispettivo economico da chi voglia sfruttare la sua scoperta. In pratica, il titolare di un brevetto detiene un monopolio, quindi non deve temere la concorrenza e può fissare il prezzo. Tuttavia il brevetto ha una scadenza e dopo un certo tempo (di solito dieci anni) la scoperta diventa patrimonio pubblico e tutti possono utilizzarla liberamente. Con questo meccanismo si intende garantire sia chi ha investito tempo e denaro che la collettività. Quando il brevetto scade altre imprese possono produrre il medicinale, identico all’originale, con un diverso nome e ad un prezzo più basso della marca (a volte anche della metà). Questi prodotti sono detti farmaci generici.
    Il Ministero della Salute ha censito circa duemila farmaci generici: sono tanti, identici ai prodotti di marca e più economici, ma il loro mercato è minimo perché l’informazione in materia viene fatta sotto voce. Così i cittadini, che non li conoscono, non li chiedono, i medici non li prescrivono e i farmacisti non li propongono.
    La diffusione dei farmaci generici ha avuto il merito di calmierare il mercato. L’equivalente dell’Aulin, ad esempio, costa il 25% in meno. A conferma di questo il Ministero della Salute ha registrato nella spesa farmaceutica una riduzione del 7% tra 2002 e 2003, dovuta proprio al calo dei prezzi.

    Tecnologia medica

    Accanto ai farmaci è andato crescendo il ruolo della tecnologia. Macchine sempre più moderne e sofisticate hanno invaso ospedali e ambulatori medici, svolgendo innumerevoli funzioni. Questa diffusione ha contribuito notevolmente all’aumento esponenziale dei costi della sanità e allo stesso tempo ha favorito una sempre maggiore specializzazione del personale medico creando una élite sempre più ristretta di esperti che tengono fuori tutti gli altri dai loro misterioso campo del sapere.

    La nuova eugenetica

    Negli ultimi anni abbiamo assistito all’esplosione della chirurgia plastica. Una tecnica nata per migliorare le condizioni di chi presenta gravi malformazioni o rimane sfigurato da incidenti, si è diffusa come pratica puramente estetica che ha generato una corsa alla clinica, a suon di quattrini, per tirare su il nasino, gonfiare labbra e seni, rimodellare glutei e zigomi. E’ il segno dei tempi, di una società in cui è obbligatorio rispecchiare i modelli imposti nell’immaginario dai mezzi di informazione.
    Lo sviluppo delle biotecnologie promette un nuovo salto di qualità nella crociata contro l’imperfezione e la diversità, riaprendo una delle pagine più buie della nostra storia recente, quella dell’eugenetica, la pseudoscienza che, attraverso processi biologici, cerca di migliorare e selezionare la specie umana. Una recente tecnica, chiamata “germline”, permette di modificare i geni trasmessi ai figli manipolando gli embrioni nella loro fase iniziale di sviluppo. In pratica sarà possibile “progettare” i bambini. I fautori di questa tecnica la presentano come un fenomeno inevitabile e positivo per l'umanità, che consentirà di accrescere la resistenza alle malattie, ottimizzare l'altezza e il peso, migliorare l'intelligenza, modellare la personalità e disegnare fattezze fisiche prestabilite. Alcuni prevedono anche la possibilità di introdurre nei bambini geni di altre specie ottenendo, ad esempio, capacità di visioni notturne pari a quelle del gufo o capacità uditive alla stregua dei cani.
    L’introduzione di queste pratiche contribuirà ad imporre un modello socio-culturale che riconosce piena dignità solo ad esseri umani perfetti, creando una nuova classificazione in caste e una nuova selezione della specie determinate dal mercato. Secondo un copione già noto, si sventoleranno i buoni principi richiamando la salute delle nuove generazioni per promuovere un’eugenetica che prevenga alcune malattie. A quel punto si potrà passare rapidamente ad un’eugenetica volta a “migliorare” l’essere umano, a dargli nuove facoltà, a programmarne l’aspetto estetico, insomma, ad ottenere dei veri e propri bambini su misura.
    Nella storia umana il concetto di salute è stato spesso piegato a interessi particolari. Basti ricordare che prima della scoperta dell’ormone della crescita nessuno pensava che la bassa statura fosse una malattia, oggi lo è. Non ci vorrà molto a far passare per malattia un naso un po’ pronunciato, delle gambe un po’ storte, labbra troppo sottili...
    I primi segnali di questa tendenza sono già presenti e si comincia a delineare quello che alcuni definiscono “apartheid genetico”. Esemplare è il caso delle assicurazioni Axa che avevano deciso di aumentare del 180% le mensilità pagate dai genitori di ragazzi handicappati, costrette poi a fare marcia indietro dalla pressione dell’opinione pubblica. Ci sono già stati casi di discriminazione operata da compagnie assicuratrici sulla base di analisi genetiche. Ad esempio, un’assicurazione francese ha fatto causa ad una signora che non aveva notificato i risultati di un test genetico che la dichiarava portatrice di una mutazione responsabile della malattia di Huntigton.
    I test genetici, oltre che alle assicurazioni, fanno comodo ai datori di lavoro che potrebbero così selezionare il personale eliminando quelli considerati “non adatti”. In molti casi questi test avvengono già all’insaputa dei lavoratori e negli Stati Uniti si calcola che il 30% delle assunzioni sia preceduto da ricerche di questo tipo. Nel frattempo ci sono giovani coppie che, prima di impegnarsi in un rapporto duraturo e nella procreazione, sentono la necessità di sottoporsi a test genetici per verificare la compatibilità dei genotipi.
    Alcuni scienziati stanno lavorando alla realizzazione di un utero artificiale e già oggi numerosi esseri umani iniziano la loro esistenza non in un utero materno, ma in piattini di laboratorio per essere impiantati in una madre solo successivamente. Ancora una volta si cerca di creare un bisogno artificiale sulla base di un ricatto morale. Un esponente del mondo universitario americano, Joseph Fletcher ha affermato: “L’utero è un posto buio e pericoloso, un ambiente difficile. Dovrebbe essere desiderio di tutti mettere i futuri figli in un luogo dove possano essere protetti e osservati il più possibile”. Questa è la premessa per espropriare definitivamente la specie umana, e in particolare le donne, dall’esperienza della maternità, proseguendo un percorso già iniziato da tempo tramite l’ospedalizzazione del parto e le innumerevoli prescrizioni mediche. Da fenomeno sacro e naturale la gestazione e il parto sono diventati un processo artificiale, relegato alla competenza di alcuni esperti. La madre viene portata a vivere la gravidanza con terrore e ansia, convinta della sua incapacità di gestire autonomamente, senza l’intervento delle istituzioni mediche, un fenomeno che qualunque animale, anche il meno evoluto, compie con estrema naturalezza. L’utero artificiale porterebbe alla chiusura del processo: la donna, incapace di assolvere al compito che la natura le ha conferito, viene “liberata dalla responsabilità”, trasferita alle istituzioni burocratiche che diverranno la vera famiglia dei figli dell’era biotech. A rileggere “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley, più che un romanzo, sembra di avere in mano una cupa profezia in procinto di avverarsi.
    Assieme all’eugenetica ritorna la tendenza degli scienziati ad attribuire ai geni il comportamento e le caratteristiche sociali dell’essere umano. Forse non torneranno ad associare la “devianza” alle caratteristiche somatiche secondo le teorie di Cesare Lombroso, ma sono già in molti a ricondurle a particolari combinazioni genetiche. Se la devianza, la minore intelligenza e intraprendenza e altre caratteristiche sociali vengono imputate ai geni, si tenderà a distogliere l’attenzione da quelle che sono le vere cause dei problemi: i geni diventeranno con estrema facilità il nuovo capro espiatorio per i mali del mondo.

    L’invasione del Ritalin
    Da qualche anno i medici e l’industria farmaceutica si sono inventati una nuova malattia dell’infanzia, l’Adhd (Attention Deficit Hyperactivity Disorder - disordine di disattenzione per iperattività) che, secondo le autorità, colpisce un bambino su dieci negli Stati Uniti. I sintomi sono quelli di bambini che un tempo avremmo chiamato vivaci: interrompere un adulto e rispondergli prima che abbia finito la domanda, non riuscire a stare seduti a lungo, tamburellare le dita o dondolare i piedi…
    Una volta riscontrata la sindrome non resta che prescrivere la cura a base di stimolanti (Ritalin) o antidepressivi (Prozac). Negli Stati Uniti si prescrivono questi farmaci ai bambini iperattivi dalla metà degli anni Cinquanta, ma il boom dell'Adhd risale agli anni Novanta: dal 1990 al 1995 l'uso del Ritalin si era sestuplicato. Nel 1995 un organismo dell'Oms denunciò che “negli Usa dal 10 al 12% dei ragazzi tra i 6 e i 14 anni sono stati diagnosticati come ammalati di Adhd e curati con Ritalin”. La tendenza è proseguita anche dopo il 1995. Negli Usa si smercia circa il 90% del Ritalin venduto nel mondo dalla Novartis e continuano a crescere i bambini trattati con queste medicine. Su 40 milioni di alunni iscritti nelle scuole Usa almeno 4 milioni prendono stimolanti.
    Anche ammesso (e non concesso) che il deficit di attenzione (la sbadatezza si diceva una volta) sia una malattia e non un'indole, resta da dimostrare che i benefici del Ritalin bilancino i suoi controeffetti. In sostanza il Ritalin è un’anfetamina, più o meno la stessa roba che è venduta come speed per la strada. Tutti negano che il Ritalin dia assuefazione, ma si calcola che circa l'80% di chi aveva bisogno della medicina da bambino, ne ha ancora bisogno da adolescente e la metà ne avrà bisogno da adulto. In uno studio della DEA (ente governativo USA) si legge: “All'uso prolungato di metilfenidato (Ritalin) sono stati associati episodi psicotici, illusioni paranoiche, allucinazioni e comportamenti anomali, simili alla tipica tossicità delle anfetamine. Sono state riportate gravi conseguenze fisiche e la possibilità di morte”. Anche senza abusi gli effetti collaterali includono: “cambiamenti di pressione sanguigna, angina pectoris, perdita di peso, psicosi tossica. Durante la fase di astinenza c'è la possibilità di suicidio”. Uno studio pubblicato dal Canadian Journal of Psychiatry (ottobre 1999) indagava su 192 bambini diagnosticati Adhd. 98 di loro ricevevano un trattamento di Ritalin, e tra loro il 9% ha evidenziato sintomi psicotici che sono poi spariti appena il trattamento è cessato. Nessuno degli altri 94 bambini (che non erano stati medicalizzati) ha mostrato sintomi psicotici.

    La privatizzazione della sanità globale

    Nel 1978, ad Alma Ata, si tenne una conferenza dell’Organizzazione Mondiale della Sanità in cui fu lanciata la campagna per la "Salute per tutti entro il 2000" riaffermando che "la salute - come stato di benessere fisico, sociale e mentale e non solo come assenza di malattia e infermità - è un diritto fondamentale dell'uomo e l'accesso a un livello più alto di salute è un obiettivo sociale estremamente importante".
    Da allora si è fatto ben poco e il quadro generale è addirittura peggiorato. Oggi, più che l’OMS, è l’Organizzazione Mondiale del Commercio a dettare la politica sanitaria, travolgendo il diritto alla salute nella furia delle privatizzazioni (come il diritto all’acqua, al cibo, all’istruzione e ad altri beni e servizi essenziali), facendone un bene di consumo a cui ha accesso solo chi può pagare. In tutto il mondo, cliniche, ambulatori ed ospedali stanno passando dalla sfera pubblica al controllo di imprese private che le gestiscono con l’intenzione di massimizzare i profitti.
    In questa logica stanno anche gli accordi economici internazioni sulla proprietà intellettuale che mette in mano alle imprese farmaceutiche il diritto di imporre prezzi inaccessibili per la stragrande maggioranza degli ammalati, come accade ad esempio per i farmaci usati nel trattamento dell'HIV/AIDS. Si sancisce così che la salute e il diritto alla vita sono un lusso per una piccola percentuale della popolazione. Tanto più se si pensa che tra il 1975 ed il 1997, su più di 1200 nuovi farmaci commercializzati nel mondo, soltanto 11 sono trattamenti di malattie tropicali che fanno stragi nei paesi poveri: seguendo la logica del mercato si investono miliardi di dollari per realizzare il Viagra e nulla per mettere a punto nuovi trattamenti contro la malaria, che uccide 1.800.000 persone l’anno. Dovremmo chiederci se i farmaci sono una merce come tutte le altre, come l’automobile e il telefonino
    La solidarietà internazionale ed il desiderio di elevare il livello di salute nei paesi poveri non devono essere il pretesto, come spesso è avvenuto ed ancora avviene, per imporre il nostro modello sanitario su tutto i pianeta riproducendo ovunque i guasti che ha già prodotto da noi. Ogni cultura ha innanzitutto il diritto di sviluppare il proprio sapere. Solo saperi diversi che si incontrano e si confrontano apertamente senza pregiudizi e pretese di superiorità potranno dar vita ad un sapere superiore di cui tutti potranno beneficiare. Purtroppo la cooperazione sanitaria ed economica messa in campo dai paesi ricchi si ispira più alla cultura dell’elemosina che a quella della collaborazione. Le popolazioni “beneficiarie” sono considerate inferiori, sottosviluppate, e quindi non serve un dialogo, ma una trasmissione unidirezionale di beni e servizi. Da qui alle crociate e al colonialismo il passo è veramente breve. Troppo spesso la cosiddetta cooperazione internazionale ha prodotto risultati devastanti sul piano culturale e sociale ed è stata il pretesto per un neocolonialismo strisciante.

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