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    30 settembre 2006 - Michele Altomeni
    Fonte: Comportamenti Solidali

    Guerre ed economie armate

    Se è vero che la guerra ha segnato un po’ tutta la storia umana assumendo nel tempo diverse forme, è altrettanto vero che con lo sviluppo tecnologico essa ha assunto una capacità distruttiva senza precedenti. Il Novecento è stato un secolo di grande violenza, caratterizzato nella prima metà dalle due guerre mondiali e nella seconda metà dalla guerra fredda. L’ultimo decennio del secolo e l’inizio del terzo millennio dell’era cristiana hanno visto l’affermazione di una forma nuova della guerra, strettamente intrecciata alla fase che la storia umana sta vivendo, quella della globalizzazione.
    In questo libro abbiamo già incontrato più volte la guerra, ad esempio parlando di petrolio e di acqua. In entrambi i casi la guerra è lo strumento per ottenere il controllo di risorse importanti. Dietro a molte guerre ci stanno motivazioni di questo tipo, ma spesso nascono dall’insieme di obiettivi ed interessi diversi, politici, economici, strategici e ideologici. Diversi settori di una società possono sostenere una guerra ponendosi differenti obiettivi. Dall’imprenditore che intende fare affari al politico che fa valutazioni elettorali o strategiche, dal comune cittadino che ci vede l’uscita dalla crisi al nazionalista invasato da valori della patria, fino al religioso che fa considerazioni sull’egemonia di una fede rispetto alle altre.
    Il generale prussiano Clausewitz definiva la guerra come “continuazione della politica con altri mezzi”. Se questo è vero lo è altrettanto che la guerra è la manifestazione di una sconfitta delle politica ed in particolare della ragione umana. La guerra, come ogni altra forma di violenza, è l’imposizione di un volere con la forza ed è quindi la manifestazione dell’incapacità umana di cooperare. La violenza di una parte, anche quella dell’aggressore, viene spesso giustificata come risposta ad una violenza subita.
    Con la fine della guerra fredda si è delineato un nuovo ordine delle relazioni internazionali che vede il ruolo centrale degli Stati Uniti e della NATO. La Guerra del Golfo (1991) ha segnato l’inizio di una nuova era della geopolitica. Su 111 conflitti scoppiati nel decennio appena passato, solo 7 sono stati guerre tra stati; tutti gli altri sono conflitti all’interno di stati e comunità. Le potenze occidentali, sempre guidate dagli Stati Uniti, hanno condotto interventi militari in Somalia (1993), in Bosnia (1995), in Kosovo (1999), in Afghanistan (2001) e in Iraq. Ma anche là dove gli eserciti occidentali non avevano una presenza diretta, le responsabilità principali dei conflitti si possono ricondurre ad interessi di paesi occidentali che hanno giocato un ruolo devastante, se non altro attraverso la fornitura delle armi o di crediti e finanziamenti finalizzati alla guerra, tant’è vero che ben un terzo dell’intero debito estero dei paesi poveri (2.400 milioni di dollari) è stato utilizzato per l’acquisto di armi dalle industrie di quei paesi da cui avevano ricevuto precedentemente i crediti.

    Le nuove guerre

    La guerra cambia volto con ogni epoca storica. Le nuove guerre sono caratterizzate dall’alta tecnologia e un grande sforzo è volto a ridurre al minimo le perdite da parte dell’esercito che attacca, per evitare ripercussioni sull’opinione pubblica. Il nemico viene attaccato con bombardamenti massicci per ridurre le sue capacità militari, industriali e politiche, cercando di ottenere la vittoria senza dover invadere il territorio rischiando numerose perdite umana. Nella prima guerra in Iraq l’offensiva aerea è durata 43 giorni, seguiti da 4 giorni di operazioni terrestri; in Bosnia gli USA hanno colpiti 300 bersagli, perdendo due aerei e due uomini; in Kosovo i bombardamenti aerei sono durati 78 giorni senza alcuna perdita americana e la stessa tattica è stata riadattata per l’Aghanistan.
    Mentre si riduce il numero delle vittime militari, le nuove guerre vedono un aumento esponenziale di vittime civili, sia in percentuale che in numeri assoluti. Durante la prima guerra mondiale ci sono stati il 5% di morti civili e il 95% di morti militari, nella seconda guerra mondiale il 48% di morti civili e il 52% di militari, nella prima guerra del Golfo l’82% di morti civili e il 18% di militari. Non è solo la conseguenza di una maggiore potenza distruttiva delle armi, ma del modo in cui la guerra viene condotta: civili e territorio sono parte integrante del campo di battaglia. Emblematico è il caso delle mine antipersona, nate come arma difensiva, svolgono ormai una funzione offensiva e sono utilizzate in maniera massiccia, tanto che i paesi che hanno vissuto conflitti recenti, soprattutto guerre civili, sono veri e propri campi minati su cui i civili continueranno a morire per anni. In generale, nelle nuove guerre, assumono sempre più importanza le armi leggere, un mercato che oscilla fra i 12 e i 14 miliardi di dollari, escluso il commercio clandestino.
    Il passaggio operato quasi ovunque dal servizio militare obbligatorio a quello professionale è motivato anche dal fatto che la scelta volontaria sgrava l’opinione pubblica e la dirigenza politico-militare da “responsabilità morali”. L’altra motivazione è stata chiaramente espressa dal Generale Carlo Jean, che il 23 gennaio 1997, di fronte alla Commissione Difesa della Camera, affermava:

    “Il vantaggio del ricorso ai volontari, da un punto di vista non tanto tecnico quanto politico, è rappresentato dal fatto che il volontario (chiedo scusa con la brutalità con cui mi esprimo), essendo reclutato negli strati più bassi della popolazione, è expendable: se, per esempio, muore il figlio di un pastore calabrese, non ci saranno movimenti di piazza: è sufficiente dare alla famiglia 100 milioni per chiudere l’incidente”.

    Il ritorno dei mercenari

    Il mercenarismo militare ha radici antiche e vi si è spesso fatto ricorso nella storia dei conflitti armati civili ed internazionali, dalle guerre del Peloponneso, rese famose dagli scritti di Tucidide e Senofonte, agli italici soldati di ventura, ai violenti Lanzichenecchi, vi sono infiniti esempi di individui, gruppi o armate di combattenti assoldati per scopi bellici o di sicurezza nel corso dei millenni. Con l’avvento della modernità lo stato ha ricondotto a sé il monopolio della forza e istituito gli eserciti statali, limitando lo spazio delle compagnie di ventura. La fine della modernità e l’avvento della globalizzazione, nell’ambito delle nuove guerre, hanno rilanciando con forza questo fenomeno anche se in una forma nuova, all’interno di quel processo generale che Jean Ziegler ha definito “privatizzazione del mondo”11
    I nuovi mercenari (corporate warrior), spesso reclutati attraverso annunci pubblicitari su internet, sono soldati alle dipendenze di vere e proprie multinazionali della guerra (Pmc, Private military companies) presenti in oltre 50 paesi con un fatturato globale di circa 100 miliardi di dollari l'anno. Si tratta di colossi della tecnologia, dell’informazione, dei servizi, spesso quotate in borsa, con tanto di azionisti, consigli d'amministrazione e direttori di funzione provenienti dai ranghi dei ministeri della difesa o degli eserciti. Generalmente figurano come consulenti delle forze armate regolari e, a fronte di lauti compensi, forniscono servizi che vanno dalle consulenze strategiche alla logistica fino alla partecipazione al combattimento. Curano la manutenzione delle armi di punta delle forze armate, ma anche il vitto dei soldati fino al ricambio della biancheria. A volte sono alle dipendenze di importanti multinazionali petrolifere o minerarie come responsabili della sicurezza. Tra le più note figurano la Saic (Science Applications International Corporation) e la Halliburton (di cui è stato amministratore delegato il vicepresidente USA Dick Cheney).
    Gli stati impegnati nelle nuove guerre trovano numerosi vantaggi nell’affidarsi ai mercenari: non sono soggetti al controllo parlamentare; in caso di morte c’è meno clamore mediatico; non sono riconoscibili all’occhio inesperto, sono liberi da ogni codice di disciplina militare e le loro azioni sono sottoposte soltanto al giudizio della legge del mercato. La diffusione di queste compagnie e la progressiva cancellazione della coscrizione obbligatoria in molti paesi occidentali vanno di pari passo.
    Le prime compagnie di questo genere sono nate in seguito alla dissoluzione del colonialismo in Africa e in questo continente hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo drammatico. Successivamente hanno tratto linfa dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica e dalla fine della guerra fredda, reclutando tra i milioni di militari rimasti disoccupati. Negli ultimi anni il fenomeno si è esteso a ritmi vertiginosi: se nel '91 c'era un mercenario per ogni 50 o 100 soldati, oggi, a fronte della riduzione del personale militare, se ne ha uno ogni 10. Dal 1994 al 2002, il Dipartimento della Difesa statunitense ha stipulato più di 3.000 contratti con società militari private. Nel 2003 ha destinato a questi contratti l'8% delle risorse complessive della difesa, per un importo pari a 30 miliardi di dollari.
    In Croazia gli “esperti” della DynCorp furono inviati ad addestrare le milizie di Zagabria (che avrebbero poi commesso efferati crimini), aggirando l’embargo delle Nazioni Unite. La statunitense MPRI ha addestrato e fornito assistenza alle bande terroriste dell'Esercito di Liberazione Nazionale Albanese che per mesi hanno attaccato polizia ed esercito macedoni, in precedenza organizzati dalla stessa multinazionale. DynCorp ha vinto in Afghanistan un contratto col Dipartimento di Stato per la protezione del leader Kharzai. Peter Singer, esperto della Brookings Institution, stima che in Iraq, un soldato su cinque sia un mercenario (30 mila su 150 mila).
    Le compagnie dei mercenari non si trovano solo in situazione di aperto conflitto. L'americana Vinnell Corporation ha firmato un contratto da 170 milioni di dollari per l'addestramento della Guardia Nazionale dell'Arabia Saudita. In America Latina, specie in Colombia, con la giustificazione della lotta al narcotraffico, mezza dozzina di queste multinazionali ricevono 1,2 milioni di dollari ogni anno per sorvolare e controllare il territorio.
    Siccome è ormai chiaro che nel mercato globale non è la domanda a creare l’offerta, ma sono i soggetti economici presenti a manipolare e determinare la domanda, è chiaro che, finchè esisteranno imprese con un grosso potere economico, politico e militare, si troverà sempre una guerra che vale la pena di combattere. E visto che gli stati stanno delegando al mercato il “monopolio della forza”, chi può escludere che un pazzo multimiliardario decida un giorno di assoldare un esercito e lanciarsi alla conquista di uno o più stati?

    Economia a mano armata

    Parlando del denaro abbiamo già detto come guerra ed economia siano strettamente legate tra loro. La spesa militare globale è diminuita da 1.200 miliardi di dollari del 1985 a 812 nel 2000, ma nello stesso periodo alcuni stati hanno aumentato notevolmente i loro bilanci militari. L’amministrazione USA, tra il 2000 e il 2003, l’ ha aumentato di 108 miliardi di dollari, arrivando ad un totale di 396 miliardi di dollari (il 40% della spesa mondiale), cioè sei volte quello russo, 26 volte la somma di quanto stanziato da quelli che il Pentagono identifica come stati canaglia (Cuba, Iraq, Libia, Corea del Nord, Sudan e Siria). Sul lato dell’offerta, gli USA controllano il 47% delle esportazioni.
    L’Italia è l’11° paese al mondo per spese militari e l’ottavo esportatore mondiale, con un volume di affari, per il 2001, pari a 177 milioni di dollari. In particolare l’Italia sta sviluppando il mercato delle armi leggere, settore in cui è quarto paese esportatore dopo Stati Uniti, Gran Bretagna e Russia. Il bilancio della difesa è cresciuto del 10% negli ultimi tre anni
    Le spese militari sostengono un settore specifico dell’industria privata, rafforzando il blocco di potere dell’industria militare. Come negli altri settori economici, l’industria bellica sta attraversando una fase di internazionalizzazione con la nascita di grandi gruppi multinazionali. Si tratta di una mutazione significativa in quanto le produzioni militari, considerate strategiche, hanno sempre avuto un forte radicamento nazionale.
    In Italia l’industria militare ha beneficiato, tra gli anni Settanta e metà degli anni Ottanta, di una legislazione molto blanda che ha permesso di esportare verso paesi in cui, per opportunità, altre potenze occidentali non volevano comparire. Questa leggerezza provocò qualche problema diplomatico con gli alleati dovuto alla vendita di armi a stati poco affidabili, aggressivi o repressivi. Dal dibattito che ne seguì e dalla necessità di regolamentare il settore, prese corpo, il 7 luglio 1990, la legge n. 185 (Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento) che subordina le scelte sui trasferimenti di armi alla politica estera e di sicurezza dello stato italiano, alla Costituzione Italiana e ad alcuni principi del diritto internazionale, vietando di esportar armi ai paesi i cui governi siano responsabili di accertate violazioni dei diritti umani, ai paesi in stato di conflitto armato, ai paesi sotto embargo di forniture belliche e ai paesi che, ricevendo fondi dall’Italia nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, destinino al proprio bilancio militare risorse eccedenti le esigenze di difesa del paese. In secondo luogo la legge, attraverso procedure di autorizzazione e controllo, rende più trasparente il settore.
    Da alcuni anni, le imprese militari, sostenute da esponenti politici di diversi schieramenti, stanno mettendo in discussione le leggi e ne chiedono una revisione che non può non preoccupare.

    Cultura della guerra e informazione

    In pochi anni abbiamo subito un vero e proprio lavaggio del cervello. Il nuovo ordine mondiale richiedeva che la guerra tornasse ad essere considerata uno strumento ordinario e normale di politica estera. L’idea della guerra come orrore da evitare ad ogni costo, come mostruosità della storia da cui la civiltà avrebbe dovuto emanciparsi; quell’idea che aveva iniziato a farsi largo nella coscienza in seguito allo scoppio delle bombe atomiche, doveva essere cancellata dalla cultura collettiva.
    In questo lavaggio del cervello, i media e una parte della classe politica hanno svolto un ruolo cruciale. In primo luogo, nel nostro paese, era necessario aggirare l’articolo 11 della Costituzione che “ripudia la guerra”. Così si è fatto passare il messaggio che le aggressioni militarti a cui l’Italia ha partecipato non fossero guerre, ma addirittura interventi umanitari a difesa di popolazioni oppresse, salvo poi travolgere nel massacro le popolazioni stesse e giustificare il tutto come “effetto collaterale”. Per rendere ancora più credibile il concetto di “guerra umanitaria” l’intervento militare nei Balcani è stato affiancato dalla sciagurata Missione Arcobaleno in cui, purtroppo, molte organizzazioni di solidarietà interazionale hanno accettato di svolgere il ruolo di foglia di fico. I mezzi di informazioni hanno fatto di tutto per convincerci che quella era una guerra santa, una vera e propria azione di solidarietà rispetto ad un popolo assoggettato ad una sanguinaria dittatura. Del resto gli strateghi delle nuove guerre hanno teorizzato da tempo che la comunicazione, cioè la propaganda, è una delle armi più importanti, e non si tratta certo di una novità.
    I giornalisti sono indotti a fare il gioco degli aggressori in diversi modi. In primo luogo la loro principale fonte di informazione sono gli addetti stampa dell’esercito. Nelle ultime guerre i giornalisti inviati sono stati rinchiusi in alcuni alberghi ai margini del conflitto e periodicamente invitati alle conferenze stampa per apprendere la verità “ufficiale”. Un altro modo è l’aggressione: se un giornalista racconta una versione diversa da quella ufficiale viene subito accusato da colleghi, militari e politici di essere nemico della santa causa e quindi amico del nemico, che sia il dittatore di turno, o i terroristi.
    Dal primo conflitto del Golfo la guerra è diventata spettacolo. La copertura televisiva è stata impressionante e si è fatta una grande attenzione all’immagine. Di quelle guerre ci sembra avere visto e saputo tutto, eppure, nonostante le migliaia di morti, l’impressione è stata quella di un videogioco, dove le vittime non sono reali. Abbiamo visto partire missili e bombe, i lampi delle esplosioni, senza farci domande sul massacro di uomini, donne e bambini che ne conseguiva.
    Gli stessi mezzi di informazione, una volta dichiarata la fine “ufficiale” delle varie guerre, sono tornati a casa ad occuparsi di altro, in attesa della guerra successiva, senza sentire il bisogno di tornare sul posto a raccontare le conseguenze dell’aggressione, se gli obiettivi dichiarati erano stati raggiunti, se ciò per cui si era detto di combattere era stato realizzato.
    Rispetto al movimento pacifista si è usata la tecnica della denigrazione etichettandolo come utopista, incapace di capire le esigenze reali dettate dall’emergenza, fino ad inquadrarlo come “collaborazionista” con il nemico.
    Ormai buona parte del lavoro è fatto. Della Costituzione non parla più nessuno e l’Italia partecipa ad ogni nuova avventura senza neanche il bisogno di aprire un dibattito in Parlamento. I cittadini cominciano ad annoiarsi e a cambiare canale.

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    Note: 11) Jean Ziegler, La privatizzazione del mondo – Marco Tropea Editore, 2003

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