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    Beni comuni

    30 settembre 2006 - Michele Altomeni
    Fonte: Comportamenti Solidali

    La crescita infelice

    La felicità è un concetto problematico, nodo perenne nel pensiero umano, fulcro dell’etica antica, cuore del messaggio cristiano, oggetto di dibattito culturale della modernità nascente, a cavallo dei secoli XVII e XVIII. Ogni epoca presenta una propria elaborazione dell’idea di felicità, strettamente legata con i tratti fondamentali del tempo, come uno specchio che riflette l’intera visione del mondo. Le considerazioni sulla felicità riassumono ciò che l’uomo è e ciò che vorrebbe essere.
    La felicità è il risultato della piena realizzazioni dell’essere umano, una realizzazione che deriva dall’equilibrio di fattori materiali, spirituali, ambientali e sociali. Tutti questi elementi sono importanti per raggiungere la felicità, che declina se alcuni vengono a mancare o scarseggiano rispetto ad altri. Raggiungere questo equilibrio non è semplice e non è un problema solo individuale. Nel corso della storia umana si sono susseguite diverse epoche caratterizzate da forti squilibri.
    Ciò che muove l’essere umano sono i bisogni che lo portano a fare le scelte quotidiane, a cercare un bene, una relazione, un luogo, un idea, un dio… Per soddisfare i propri bisogni l’essere umano ha imparato ad organizzarsi con altri essere umani, ad impiegare strumenti, a progettare anche nel lungo termine. Così, un po’ alla volta, i bisogni hanno creato quello che chiamiamo progresso, ossia una continua trasformazione della realtà.
    La nostra società, nell’epoca in cui viviamo, è caratterizzata da un elevato grado di sviluppo, dalla capacità di produrre una grande quantità di beni materiali. Consente all’essere umano di soddisfare una mole enorme di bisogni, molti dei quali addirittura inconcepibili fino a pochi decenni fa. Eppure sembra incapace di produrre la felicità che promette, proprio perché ha perso l’equilibrio.
    Progresso, bisogni e felicità sono parole chiave per la nostra condizione, vale la pena dedicare loro alcune righe.

    Il progresso

    L’idea del progresso è connaturata alle religioni monoteiste, al messianismo, che concepisce la storia come evoluzione e liberazione. In pratica è una evoluzione del senso religioso umano, ed è proprio con senso religioso che viene vissuto dall’uomo, nella perenne rincorsa di un orizzonte sempre più avanzato. Al termine della corsa dovrebbe esserci il paradiso, la terra promessa, una sorta di stadio finale dello sviluppo.
    Progresso, in passato, ha avuto un significato più complesso, capace di tenere conto delle diverse dimensioni dell’essere umano. Il progresso materiale era uno degli aspetti, e non il più importante, anzi, più che altro lo strumento per poter approdare alla soddisfazione di altri tipi di bisogni.
    L’avvento della società industriale ha portato una trasformazione sociale e culturale profonda e repentina. La tecnica, fino ad allora al servizio di un progetto più ampio, ha messo nelle mani dell’uomo capacità fino ad allora impensate. Anziché utilizzare queste capacità per continuare ad evolversi, l’uomo si è lasciato prendere da un delirio di onnipotenza, si è autoproclamato dio ed ha smesso di perseguire il proprio progresso per dedicarsi invece ad accrescere lo strumento del proprio potere, la tecnica stessa. Di pari passo si è concentrato solo sull’aspetto materiale della sua esistenza, lasciando andare alla deriva gli altri.
    Erich Fromm scriveva:

    La crescita del sistema industriale moderno ha provocato l’espansione illimitata della produzione e ha favorito e intensificato un comportamento consumistico. L’uomo è diventato un accumulatore e un consumatore. L’esperienza centrale della sua vita è diventata un crescendo di “io ho”, di “io uso” e sempre meno “io sono”. I mezzi, ossia il benessere materiale, la produzione, la creazione di beni, divennero fini, quando in origine non erano altro che strumenti per una vita migliore e degna dell’uomo12.

    L’uomo è rimasto ancorato alla zattera che doveva portarlo alla propria pienezza, preferendo accontentarsi di quella prettamente materiale: «l’uomo del ventesimo secolo assomiglia a un aborto»13.

    I bisogni

    L’uomo è l’animale meno determinato dagli istinti. E’ invece guidato dalla volontà che, a sua volta, è mossa dai bisogni.
    Privo di mappe istintuali che decidano per lui, deve scegliere da solo come rispondere alle proprie esigenze, sperimentando quella libertà di azione che costituisce l’essenza umana: la libertà di costruire da sé le proprie caratteristiche e capacità, attraverso l’esperienza delle proprie forze e dei propri limiti, passibili di incredibili modificazioni, grazie alla malleabilità che il suo essere indeterminato permette. Si tratta di una condizione ambivalente, perché questa libertà dagli istinti diventa con estrema facilità dipendenza dai bisogni e dai mezzi per soddisfarli.
    La condizione dell’uomo occidentale contemporaneo è proprio quella di chi ha perso la capacità di gestire i propri bisogni e ne è diventato succube. I bisogni, in una condizione di equilibrio, svolgono un ruolo di stimolo per la creatività. Nella condizione attuale non è così perché tutti i bisogni sono schiacciati su una unica dimensione, quella materiale. I bisogni non ci accompagnano lungo il nostro cammino, ma ci trascinano come una belva al guinzaglio. Non a caso tutti i grandi saggi riconoscono nella capacità di dominare i propri bisogni la via dell’appagamento. Ci si realizza veramente nel momento in cui si desidera qualcosa di cui si può parimenti fare a meno.
    Platone affermava che l’uomo smette di dipendere quando smette di essere alla stregua di orci guaste da riempire continuamente. Socrate riteneva che si giungesse alla felicità attraverso l’autarkeia, l’autosufficienza, l’autonomia e l’indipendenza. Epicuro, superficialmente considerato filosofo del piacere e dell’edonismo, in realtà considerava il mondo artificiale la residenza dei bisogni fittizi, dei “falsi condizionamenti”, attorno ai quali l’intera società si muove e “che sono per l’animo causa di immensa sofferenza” facendo cadere l’uomo preda di infinita brama e del malessere che da essa si sprigiona. Riteneva invece che i bisogni naturali, soprattutto quelli necessari, ci guidino lungo il solco della natura, nel quale sono assenti quelle preoccupazioni sorgenti d’ansia, così tipiche del mondo civile. “In fondo ciò che veramente serve non è difficile a trovarsi, l’inutile è difficile”14. Gli sforzi maggiori dell’attuale società sono votati al raggiungimento di questi beni inutili, doppiamente dannosi.
    Ad Epicuro è già chiara la dinamica vorticosa che spinge a preoccuparsi tanto quanto più si è provvisti di ricchezze: quelli che dovevano essere gli strumenti di un crescente piacere, si trasformano in fonti di angoscia e di preoccupazioni fuorvianti. La natura, invece, ci insegna, attraverso la legge della necessità, come la nudità della vita sia portatrice di serenità e calma interiore, come essa sia la condizione più propriamente umana.
    E’ fondamentale raggiungere l’indipendenza dai desideri, al fine di apprendere una sana gestione dei bisogni e dei piaceri. Il distacco conduce all’autosufficienza che delimita la condizione di schiavo da quella di padrone e centro decisionale delle proprie scelte. Grazie a questa indipendenza, l’individuo diviene imperturbabile di fronte ai colpi del fato. Inoltre, egli acquista la virtù del saper godere del poco come fosse molto, del semplice come fosse il raffinato, smettendo di soffrire per le eventuali mancanze.

    Felicità

    La Lettera sulla felicità di Epicuro, a distanza di secoli, rimane di grande attualità e racchiude in poche parole una verità che sembra non appartenerci più. Il malessere che caratterizza la nostra società origina proprio dalla schiavitù di cui ci parlavano i filosofi greci, quella sottomissione ai bisogni da cui siamo divorati, quella brama di beni materiali che si connota come completa dipendenza.
    Lo stesso concetto di felicità viene compromesso e logorato dagli abusi mediatici che se ne fanno: grandi sorrisi di plastica tentano di convincerci che la formula della felicità sta nel consumo continuo. Il benessere materiale, cioè l’avere, è la risposta univoca che il mondo moderno e postmoderno concedono all’eterno quesito della felicità. L’uomo occidentale è diventato incapace di distinguere la felicità dal piacere e dall’edonismo sfrenato. Così il mercato si impone come unico luogo in cui si possa cercare il benessere.
    Non solo. Oggi essere felici è praticamente un dovere sociale. Dolore, malattia, tristezza e altre forme di malessere sono guardati con disprezzo in nome di una tirannia della felicità a cui è vietato sottrarsi. In un mondo di prestazioni e velocità che sfidano la fisiologia umana, la felicità assomiglia sempre più ad una questione di efficienza. Essendo apparentemente scomparsi i grandi ostacoli che nel passato s’interponevano tra l’individuo e la sua felicità, compresi quelli religiosi, politici e morali, non ci sono più scusanti: essere felici diviene semplicemente una questione di volontà. Il diritto alla felicità si è trasformato in dovere e non raggiungerla è un fallimento personale.
    Dentro questa condizione di naufraghi spaesati, si colgono segnali di resistenza. La felicità torna ad interrogarci con prepotenza, e le domande le ritroviamo nelle analisi di studiosi diversi, dai filosofi agli economisti, dopo aver proliferato tra manuali del fai da te e ricette new age. La consapevolezza del disagio appare sempre più palese, mentre infuria il dibattito di una cultura scossa dalla contraddizione tra l’apparente euforia e la dilagante infelicità.

    Tempo e spazio

    Tempo e spazio, dimensioni fondamentali della condizione umana, hanno subìto, nella nostra epoca, una trasformazione profonda.
    Lo spazio sembra essersi dilatato quasi all’infinito e nessun luogo è irraggiungibile. Fino a pochi decenni fa la vita di un essere umano si svolgeva là dove si nasceva, in uno spazio limitato. Oggi ci si sposta da un capo all’altro del mondo con estrema velocità e semplicità. Il villaggio di allora equivale oggi al pianeta intero.
    Il tempo ha subito una vorticosa accelerazione. E’ una tecnologia sempre più evoluta a dettare i ritmi dell’esistenza. La velocità è uno dei valori fondamentali della nostra epoca, perseguito a qualunque costo.
    Entrambe queste trasformazioni hanno una lato oscuro, il rovescio della medaglia. Poter essere ovunque equivale a non essere in nessun posto. L’uomo occidentale moderno è un naufrago, non appartiene a nessun luogo e nessun luogo gli appartiene. In altre parole, si trova completamente “spaesato” e “fuori luogo”, ovunque sia.
    Una tecnologia che accelera i ritmi, anziché liberare tempo, lo erode. Siamo circondati di strumenti creati ed acquistati appositamente per avere più tempo libero, eppure è proprio il tempo il bene più scarso, quello che maggiormente ci manca. Per liberarlo aumentiamo la dose di tecnologia, ottenendo il risultato opposto. La mole crescente di oggetti di cui ci circondiamo chiede tempo, per essere costruiti, per guadagnare i soldi necessari a comprarli e mantenerli, per utilizzarli, per smaltirli.
    La dimensione che il tempo e lo spazio hanno assunto nella società in cui viviamo sono causa di forte frustrazione e malessere: più luoghi visitiamo più ci sentiamo spaesati, più corriamo veloci e più ci manca il tempo.

    Mercedipendenza

    Il Gruppo Abele, un’associazione che da anni si è occupata di dipendenze, ossia di droghe, alcol, gioco d’azzardo, di recente ha aperto un centro di disintossicazione dal consumismo. Può sembrarci strano perché mentre la dipendenza da alcol o da droga viene socialmente condannata, il consumismo viene addirittura incoraggiato nel nome del progresso e dello sviluppo economico. Eppure le dinamiche, le cause e le conseguenza non sono molto diverse.
    Alla base c’è un disagio, un malessere, una sensazione di inadeguatezza rispetto al contesto sociale. Il consumo, che si parli di sostanze stupefacenti o di merce in genere, è una via di fuga. In entrambi i casi si sviluppano dipendenza ed assuefazione: una volta iniziato non si riesce più a fare a meno del consumo, ma allo stesso tempo viene meno il piacere che si provava all’inizio e si continua solo per ridurre il malessere dato dall’astinenza.
    Le civiltà che basano la loro esistenza su pochi beni ne percepiscono fino in fondo il valore, anzi, i valori, che non sono solo economici, ma anche simbolici, sociali, affettivi. Man mano che cresce la quantità di merce accumulata se ne perde inevitabilmente il senso. I beni ammassati perdono i loro valori e diventano oggetti freddi e incapaci di darci qualunque tipo di piacere. Man mano che diminuiscono i valori di ciò che possediamo sentiamo più forte il bisogno di possederne altri, come compensazione, continuando a sprofondare in un baratro senza ritorno, verso un crescente senso di frustrazione e dipendenza.
    Di questa dipendenza si nutre il sistema economico come la malavita si arricchisce sulle tossicodipendenze. Si tratta di un sistema economico malato perché sopravvive solo se cresce. Per non crollare deve produrre sempre più, inventare nuovi prodotti e venderne quantità crescenti. Per questo deve creare sempre nuovi bisogni, necessariamente sempre più superflui e voluttuari.
    Strumento fondamentale per questo processo è la pubblicità, che ha profondamente mutato la nostra esistenza, abituandoci a desiderare e comprare prodotti di cui mai in passato abbiamo sentito la necessità.

    Vivere per lavorare, lavorare per consumare

    Quando si parla di consumismo e si propone di ridurre i consumi ci si sente subito rispondere che in questo modo si perdono posti di lavoro. Creare posti di lavoro e far girare l’economia per il bene di tutti danno un valore etico anche al consumismo. Basta uscire un po’ dalla retorica e dagli slogan per rendersi conto della perversione insita nell’idea che sta alla base del nostro sistema economico, la perversione che ci riempie di oggetti e ci priva del tempo di usarli, la perversione di un modello economico incapace di reggersi in piedi se non in corsa.

    La smania del possesso

    Altro elemento caratteristico della nostra società è la smania del possesso. Spaesati, frustrati e dipendenti dalla merce come siamo, cerchiamo rifugio nella certezza della proprietà privata. Acquistiamo beni più per possederli che per usarli così che il valore d’uso è passato in secondo piano rispetto al possesso, in un processo che ha travolto l’idea di “bene comune”, ossia di beni che non hanno proprietà e sono a disposizione di tutti. Nei secoli scorsi è stata privatizzata la terra, oggi la furia sta divorando l’acqua, il pensiero, la base biologica della vita stessa. Brevetti e certificati di proprietà sono i miti fondanti di una nuova civiltà.
    La proprietà privata è un valore intangibile e grandi energie collettive vengono destinate alla sua tutela, comprendente ormai non solo gli oggetti, ma anche la dimensione relazionale, con la grande retorica e produzione normativa sulla privacy. Privacy e privato hanno la comune radice nel verbo “privare”, che significa escludere l’altro, sottrarre, impedire. Una società fondata sull’idea di privare non può essere conviviale e accogliente, non può produrre vero benessere.

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    Note: 12) Erich Fromm, Io difendo l’uomo Un nuovo umanesimo per un mondo nuovo
    13) Erich Fromm, Io difendo l’uomo Un nuovo umanesimo per un mondo nuovo
    14) Erich Fromm, Io difendo l’uomo Un nuovo umanesimo per un mondo nuovo

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