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    8 dicembre 2006 - Stefano Pizzichini e Annarita Corradini
    Fonte: Bollettino Res Marche Anno 2 N°3 - 04 dicembre 2006

     

    In Perù con il Turismo responsabile

    Un’ esperienza indimenticabile:
    il viaggio di nozze in Perù con il Turismo Responsabile


    Fatta la scelta del Turismo Responsabile, per il nostro viaggio di nozze, non avevamo idea di dove trovare un’agenzia di questo nuovo settore, così abbiamo semplicemente cliccato la parola “turismo responsabile” sul motore di ricerca in Internet. Sono comparse diverse agenzie, tutte fuori dalle Marche, molte in nord Italia. Quelle più importanti che si occupano soprattutto dell’America latina, (a noi interessava il visitare il Perù), sono Pindorama di Milano e Planet Team Viaggi di Verona. Dopo i primi contatti via mail finalmente decidiamo, un po’ impauriti e un po’ diffidenti, di “comprare” un prodotto conosciuto solo attraverso internet, e sulla fiducia spediamo l’acconto con un bonifico bancario. Obbligatorio un incontro a Verona in agenzia. Lì abbiamo conosciuto i nostri futuri compagni di viaggio e ci sono state date tutte le indicazioni utili e indispensabili per un viaggio di quella portata: clima, tipo di abbigliamento, alimentazione, tipo di bagaglio, e naturalmente tutto il programma degli spostamenti. Il personale dell’agenzia è stato molto professionale e ci hanno fatto un’ottima impressione.

    Finalmente si parte!

    Finalmente partiamo con tanta curiosità e nessuna aspettativa, essendo aperti a cogliere tutto quello che sarebbe accaduto. Ci siamo dati appuntamento all’aeroporto di Francoforte, la mattina del 1° agosto. Ogni gruppetto di persone veniva da luoghi diversi: Torino, Milano, Verona, Roma, Bologna. Quando ci troviamo a salire insieme sull’aereo, che avrebbe sorvolato l’Atlantico, eravamo eccitatissimi di cominciare quest’avventura. Dopo dieci ore di viaggio atterriamo a Caracas, in Venezuela, aspettiamo due ore e ci rimbarchiamo per Lima, la capitale del Perù. Dopo altre tre ore arriviamo a destinazione. Arrivati in orario a Lima (h 20 ora locale) ci accoglie all’aeroporto Giovanni Vaccaro, un italiano che ci farà da guida per tutto il viaggio in Perù. Giovanni è la prima persona eccezionale che incontriamo, è sposato con Nancy, una donna peruviana, ha quattro figli, e mantenendosi con lezioni d’italiano e la collaborazione con l’agenzia di turismo responsabile Planet Team Viaggi di Verona, segue con vera e propria devozione il lento cammino di emancipazione della gente peruviana che, scesa dalle Ande, si ammassa nella baraccopoli, per costruire e coltivare nuove speranze. Ci fa salire su un furgoncino scassatissimo ma funzionante; carichiamo tutti i bagagli, anche sul tetto del mezzo, e si attraversa Lima per più di un’ora.

    Lasciare il mondo dei “ricchi-occidentali”

    Uscire dall’aeroporto e vedersi di fronte quel furgoncino è stato come lasciare il nostro mondo, da ricchi, ed entrare in quello dei poveri, solo alla fine del viaggio, ritornando nello stesso aeroporto ci siamo resi conto dell’esperienza che avevamo fatto, e un po’ tristi e già con la nostalgia nel cuore abbiamo ripreso l’aereo che ci riportava nel nostro “piccolo” mondo, del resto noi siamo solo il 20% della popolazione mondiale!
    Lima è la seconda città più grande costruita sul deserto, dopo Il Cairo. E’ una metropoli mostruosa (70 km è l’estensione della città), non tanto il centro che sembra una città come tante altre, col suo centro storico, i suoi quartieri caratteristici, quello degli artigiani, quello degli artisti, il quartiere “bene”, con l’hotel internazionale a cinque stelle, che svetta sulla costa del Pacifico, i centri commerciali. Quello che è impressionante è che tutt’attorno a questa città “normale” si estende una periferia enorme, camminavamo con quel pulmino, attraversavamo strade, case, e non si arrivava mai. Ad un certo punto ci accorgiamo che la strada è piena di buche, che le case non sembrano più tanto case, come case non completate, poi la strada diventa sterrata, e le case ora con certezza puoi dire che non sono proprio case, sono lamiere appoggiate su mattoni, eppure, lì, c’è gente che ci abita.
    Proprio qui il pulmino si ferma e ci fa scendere, avremmo pernottato lì per quattro notti a casa di Giovanni. Lui e sua moglie hanno scelto di abitare con la sua famiglia dove la periferia finisce e comincia la baraccopoli. Si avverte subito che c’è un confine chiaro tra la zona che è sotto il servizio del municipio, e la zona, ugualmente abitata, piena di gente ma desolata. E’ come se questa gente non esistesse per le autorità competenti, non c’è il servizio dell’acqua, non c’è il servizio dell’energia elettrica, chi ci abita sono i cosiddetti “invisibili”.

    La baraccopoli di Lima

    Strade inesistenti, lamiere appoggiate alla meno peggio sopra mattoni forati, bidoni di acqua, una bambina più grande insegna a scrivere ad una più piccola, una mamma che allatta, un uomo che trasporta enormi pesi sulla schiena per quelle salite ripide.
    Vediamo una donna con un fagotto sulla schiena, dove spunta la testolina di una bimba piccola, che trasporta un sacco enorme pieno di bottiglie di plastica schiacciate. Un’altra figlia grande trasporta anch’essa un sacco enorme e molto pesante di carta, di quaderni di scuola scritti ed entrambe sono dirette a venderle in un centro di riciclo.
    Gli andiamo incontro io e Stefano percè erano in difficoltà, non riuscendo a scendere da un sentiero ripido, con tutto quel peso e quell’ingombro.
    Ci ringraziano tantissimo, facciamo due passi insieme aiutandole a portare quei sacchi, mentre camminiamo la donna mi dice, esattamente in quest’ordine: “Sono sola, sono rimasta vedova, ho tre figli da mantenere e un figlio mi è morto piccolo”. L’ascolto, non so cosa dirle, non le dico niente, la guardo dolcemente con compassione.
    La figlia di tredici o quattordici anni, ha occhi molto intelligenti, curiosi e desiderosi di conoscere. Ci chiede di dove siamo, in quale zona esatta dell’Italia viviamo, perché siamo lì, ci dice che si chiama Tania. E’ molto contenta, non tanto del nostro aiuto, quanto, credo, del fatto che ci siamo avvicinati a parlare con loro, e come arriva il momento di salutarci le si inumidiscono gli occhi. Ci chiede le nostre e-mail, e lei ci dà la sua. (pur non avendo niente nella sua baracca, i punti internet nella periferia pullulano a bassissimo costo). La madre la richiama, come per dirle di non darci troppo fastidio.
    E’ sorprendente la dignità di queste persone, così discrete e dignitose nella loro povertà, povertà di cose materiali, ma ricche dentro di tanta delicatezza, gentilezza e rispetto.
    Rimaniamo stupefatti e confusi, ci dispiace salutarle, ci dispiace lasciarle lì, nella loro miseria, miseria che è pure la nostra, nell’andare via e lasciare che tutto passi sotto i nostri occhi senza poter fare niente.
    Nella nostra mente ci viene da dire: “Ma come fate ad essere così? Non siete arrabbiate? Non vi sentite che qualcuno ha calpestato i vostri diritti? Non provate rabbia e invidia per noi ricchi che viviamo nel mondo dei balocchi?”
    Abbiamo capito solo dopo qualche giorno perché quella gente era così contenta di vedere un europeo. Giovanni ci ha aiutato a capire. ….mi vengono le lacrime agli occhi a pensarci……è doloroso vedere tanta miseria umana……non riesci a capire come mai l’uomo è sceso tanto in basso e permette che suo fratello viva in quel modo…ma cosa è successo affinché si arrivi a questo punto….di chi è la colpa, chi è stato?
    Di fatto - dice Giovanni, che vive con loro da ormai più di dieci anni - essere visti da voi, da noi occidentali, è un’esperienza, per loro, molto importante. Dopo tanto tempo passato ad essere discriminati si finisce col perdere la stima di se stessi; essere visti da una persona che per loro conta, li fa sentire importanti, fa recuperare loro l’autostima. Se tu europeo hai fatto tanta strada per venire qui, e utilizzi il tempo per parlare con me, per incontrarmi, allora anche io sono importante. Strano, ma quando si è ignorati, essere visti per un “invisibile” diventa un’esperienza salvifica.

    Le comunità andine

    Questi sono stati soli i primi quattro giorni del nostro viaggio, potete già immaginare l’intensità emotiva che avevamo e che ha accompagnato le altre tre settimane di viaggio!
    Da Lima, poi, ci siamo spostati sull’altipiano andino, sopra i quattro mila metri. Abbiamo conosciuto questo popolo quechua, abitanti delle Ande, stesso popolo che abita le Ande dell’Equador, del Perù, della Bolivia. Questa gente è rimasta nelle loro terre, così inospitali, a coltivarle come i loro progenitori incas le coltivavano.
    Averli conosciuti nella loro quotidianità ci fa capire come mai molti lasciano le terre e scendono dalle montagne a cercare un modo migliore di vivere, e si affollano a Lima con l’illusione di stare meglio.
    Pochissimi sono quelli che ci guadagnano, spesso perdono tutto, nel senso che perdono l’aiuto della comunità (la sopravvivenza nelle Ande è garantita da un’organizzazione comunitaria molto forte, sviluppatasi nei secoli), perdono la conoscenza di saper coltivare la terra, di saper fare artigianato. Bastano due generazioni che queste conoscenze vengono perse perché non più tramandate.
    Si sviluppa l’alcolismo tra gli uomini, in quanto sono loro i primi che si sentono falliti, incapaci di mantenere la famiglia, o addirittura di costruirsela.
    Moltissime sono le ragazze madri, che per mentalità sono molto legate all’idea di essere importanti se procreano. Acquisiscono valore agli occhi del compagno se procreano, ma questo si scontra con la dura realtà in cui non c’è più una rete sociale che garantisce equilibri, e se si considera la povertà in cui si è immersi si possono immaginare le conseguenze.

    Uno schiavismo attuale

    Sempre di più i bambini vengono lasciati a se stessi, un bambino di 4-5 anni è già capace di badare a se stesso. Prendono i bus, lasciano la montagna, approdano in città dove è diffuso il fenomeno di tenerli in casa per lavori domestici in cambio di vitto e alloggio. Ma c’è un problema, non vengono trattati come esseri umani, sono innanzitutto discriminati perché sono di razza quechua, che significa non capire la lingua spagnola, venire dalle montagne dove si hanno altri usi e costumi, ad es. non ci si lava spesso, ecc. tutto questo legittima i maltrattamenti, permessi ed accettati dai bambini (soprattutto bambine) perché non conoscono altro modo di vivere, fino a quando la violenza diventa troppo grande, tanto che scappano. E si ritrovano sulla strada, preda di altre famiglie pronte a prenderle in casa e maltrattarle di nuovo. Sono bambine senza nome, crescono convinte di essere una specie inferiore, quindi facilmente “addomesticabili”. Questo è un fenomeno particolarissimo del Perù, di vero e proprio schiavismo, difficile da combattere perché anche la medio-alta borghesia, quindi gli stessi governanti hanno bambine fra le loro domestiche.

    Vittoria e il Caith

    Alla fine del nostro soggiorno in Perù siamo rimasti a Cusco per una settimana, dormivamo e mangiavamo presso una comunità che accoglieva le bambine che scappavano da famiglie che le maltrattavano. La nostra quota di soggiorno veniva utilizzata per finanziare il centro. Questo centro si chiama Caith, fondata e gestita da una donna italiana, Vittoria, di oltre 70 anni, piena di ironia e di spirito, che ci è rimasta nel cuore per la sua discreta ma efficace e potente dedizione che ha avuto e continua ad avere nel suo operato di restituire dignità a queste bambine, che diventano poi donne, ma soprattutto a ricostruire la loro identità. Vittoria è un’istituzione presso gli addetti del settore del recupero. Ormai il centro è abbastanza conosciuto, tanto da ospitare anche quaranta bambine e ragazze per volta. Lei e la sua equipe intanto danno loro una casa, nel senso di famiglia. Queste bambine non hanno mai conosciuto un ambiente familiare. Poi vengono seguite a livello psicologico e a livello legale, il centro si fa garante perché le ragazze rientrino a lavorare in luoghi che rispettino un contratto che l’avvocato del centro definisce. C’è una grande energia in quel centro, è così accogliente che anche noi facevamo fatica a venir via da quella grande e calda cucina.

    Conclusioni

    Abbiamo viaggiato tanto, in lungo e in largo del Perù, nei suoi deserti, nei suoi canion, nel lago Titikaka, dove siamo stati ospiti di una comunità indigena che invece è sopravvissuta all’avvento dell’uomo europeo, e vive in un perfetto equilibrio, tanto da diventare un esempio di gestione politica comunitaria e di distribuzione di risorse per garantire una buona qualità di vita.
    Abbiamo visitato il celeberrimo Machu Pichu, e ammirando questo sito archeologico, insieme a molti altri siti, si può vagamente intuire la maestria agricola, architettonica, astronomica, di gestione politica e di evoluzione spirituale che avevano raggiunto le popolazioni incaiche. E come tutto questo sia andato perso o quasi. Forse il danno più grande che è stato fatto alla popolazione quechua è stato quello di spogliarli della loro dignità, deriderli perché arretrati, diversi e “selvaggi”. Mi viene in mente quello che diceva Sartre: “Non c’è uomo più cattivo di colui che vuole farmi vergognare”; sì, se devo pensare cosa mi ha più colpito in questo viaggio è stato vedere che il razzismo esiste. Esiste una classe ben distinta di dominati e di dominatori, dove neppure la vicinanza fisica permette di entrare in empatia e di riconoscere che quell’uomo è mio fratello. Vivere fianco a fianco, gomito a gomito a Lima, città-baraccopoli, non crea occasioni per risolvere il problema. Ci sono muri invisibili che separano due mondi. E questo è il razzismo. Probabilmente abbiamo conosciuto e visto più realtà di povertà noi con questo viaggio che uno stesso peruviano che abita nel quartiere ricco di Lima. E dal razzismo si sviluppa lo schiavismo, l’indifferenza, la povertà, la violenza. E’ una catena senza fine.
    E noi occidentali? Non ci facciamo una bella figura. L’Europa, e in generale il così detto primo mondo, visto dall’America Latina, è una società in decadenza. Sebbene derubi le ricchezze del sottosuolo attraverso multinazionali (come dice Zanotelli, “E’ il terzo mondo che foraggia il nostro, con la scusa del debito”), è di una povertà di valori terribile. Siamo poveri di tempo, siamo individualisti, fatti che ci portano ad essere egoisti, invidiosi e in perenne competizione. E soprattutto siamo depressi. In America latina si recupera il piacere dell’incontro, e questo ci fa sentire che il sangue scorre nelle nostre vene, si sente la vita, il piacere, la danza, la gioia, la condivisione. Stati d’animo che abbiamo provato tra di noi, partecipanti a questo viaggio impegnativo ma affascinante. Probabilmente non avremmo sentito tanto affiatamento se con le stesse persone avessimo viaggiato con un tour- operator classico, senza questa organizzazione in cui si entrava nelle case, nelle vite delle persone peruviane.
    Tanto coinvolgente è stata l’esperienza tra di noi nel vivere determinate situazioni che abbiamo creato una mail group, siamo in rete tra di noi, e ci sentiamo spessissimo. Ci siamo anche incontrati a Milano tutti insieme un week end, ospitati da una coppia generosissima. E la sensazione è quella di sentirci più arricchiti, più umani, più collocati nel mondo. Abbiamo anche noi come coppia recuperato il piacere dell’incontro con il diverso da noi. Più l’essere umano si riserva degli spazi nella sua quotidianità in cui vivere bene l’incontro con l’altro, tanto più la qualità di vita si alza, apportando gioia di vivere, vitalità, entusiasmo e pace. Possiamo dire che sia questo il regalo che i peruviani e gli italiani volontari che abbiamo incontrato ci hanno fatto, ci hanno ri-sintonizzato il cuore.

     

     

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