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    8 dicembre 2006 - Lina Caraceni
    Fonte: Bollettino Res Marche Anno 2 N°3 - 04 dicembre 2006

    In viaggio attraverso il Perù

    alla scoperta di civiltà precolombiane e progetti di cooperazione

    Agosto 2006. Malgrado una serie di difficoltà organizzative, finalmente giovedì 17 si parte alla volta del Perù. Cinque ragazze italiane nella terra degli Incas, per un viaggio di turismo responsabile promosso da alcune organizzazioni di commercio equo e solidale (Fair, Mondo Solidale Marche e Isola di Amantanì). Da tempo amo sperimentare percorsi turistici alternativi, come, ad esempio, il mio primo viaggio in Nigeria, in una missione cattolica nel cuore di Ibadan, una tra le più popolose città africane; o il viaggio alla scoperta della provincia del Chubut, nel sud dell’Argentina; o, ancora, l’esperienza in Guatemala, tra i raccoglitori di caffè della Cooperativa “La Nueva Esperanza” (da cui Mondo Solidale importa il caffè El Bosque). Anche in questa occasione sono partita con un obiettivo: incontrare una piccola comunità di allevatori di “alpaca”, con i quali la cooperativa Mondo Solidale ha avviato un progetto di importazione di filati e manufatti in lana. Si tratta di un gruppo di “campesinos” che vivono su uno sperduto altipiano, nei pressi del lago Titicaca, al confine con la Bolivia. Choccocconiri, questo è il nome della comunità, all’interno della quale si è sviluppato il progetto Alsi (Comunità alternativa di servizio integrale), con il quale è stato avviato il progetto di importazione diretta.

    Questa tappa non è stata che l’epilogo di un viaggio molto bello, stimolante e anche faticoso, alla scoperta di un’altra faccia del Perù, oltre quella proposta dalle cartoline, alla quale, comunque, non abbiamo rinunciato. Siamo partite da Lima, dalla periferia sud della città, da uno dei quartieri più poveri dove vivono migliaia di persone, la gran parte delle quali ai limiti della sussistenza). Qui siamo state ospiti del Ceprof (Centro di promozione familiare), una “casa famiglia” che dà asilo a bambine dai 6 ai 13 anni che vivono in stato di abbandono o che sono state allontanate dalle loro case perché vittime di violenze. Nel centro ritrovano quell’ambiente familiare che hanno perduto. L’ospitalità ai turisti è lo strumento per finanziare e tenere in piedi l’intera organizzazione. L’esperienza del Ceprof, non è unica: per seguire il nostro itinerario turistico ci siamo sempre appoggiate a questo tipo di case-alloggio che si trovano nelle periferie dei grossi centri urbani. Ad esempio, a Cusco abbiamo fissato la nostra base logistica al Caith (Centro di appoggio integrale alle lavoratrici domestiche), una struttura che accoglie e cura la formazione di bambine e ragazze altrimenti destinate allo sfruttamento nel lavoro domestico.

    Sempre nella zona di Cusco, siamo state ospiti anche di una delle sedi dello Ier (Istituto di educazione rurale), un organismo che collabora con lo Svi (Ong italiana con sede a Brescia) e che organizza corsi residenziali di formazione nel settore della gestione di piccole imprese agricole e di allevamento. Anche per loro l’ospitalità ai turisti può rappresentare una buona occasione per finanziare le attività dell’istituto.

    La città di Cusco ha rappresentato, nel nostro percorso, la porta d’ingresso nella cultura degli Incas: è una città ricca di storia e di storie, dove alla magnificenza dell’architettura spagnola si alternano le rovine di antichi siti di civiltà precolombiane. Esiste un vero e proprio itinerario che, attraverso il “valle sagrado” (la valle del fiume Urubamba, che in lingua quechua significa “fiume sacro”) conduce al maestoso sito archeologico del Machu Picchu, immerso in una gola lussureggiante di vegetazione, circondata da alte montagne. Uno spettacolo che toglie il fiato.

    Non da meno sono le atmosfere che si respirano nella zona del lago Titicaca, il lago navigabile più alto del mondo (a oltre 3800 metri di altezza), dalle acque del quale la leggenda narra che sia partito Manco Capac, il primo inca, per fondare un impero, così come aveva ordinato il Dio Sole. Qui si viene a contatto con popolazioni che ancora oggi non hanno rinunciato a vivere secondo la tradizione. Sono tutte accomunate dalla stessa lingua, l’aymara, una delle lingue native americane. Abbiamo visitato Uros, le isole galleggianti, costruite con la totora, una specie di canna che cresce nel lago e che viene utilizzata anche per l’alimentazione e per la produzione di oggetti artigianali; ci siamo fermate ad Amantanì, un’isola selvaggia e incontaminata al centro del lago, dove si entra a contatto con uno stile di vita d’altri tempi, ancora presente nel lavoro quotidiano, negli abiti che indossano le donne, nelle manifestazioni folkloristiche. Non è semplice vivere ad Amantanì: la terra non offre molto, nemmeno quello che serve per mangiare, tanto che, diversamente da ciò che accade nel resto del Perù, qui non si incontrano animali domestici. Costerebbe troppo mantenerli e si preferisce farne a meno. Per dare un sostegno alle donne che vivono nell’isola, la cooperativa sociale “Isola di Amantanì” di Pescara ha avviato un progetto di importazione di tessuti che vengono commercializzati attraverso l’omonima bottega del commercio equo.

    Altrettanto affascinante è stata la visita ad Arequipa, la “città bianca”, alle falde della cordigliera occidentale delle Ande e ai piedi del vulcano Misti (qui siamo sulla costa del Pacifico, sempre nella parte sud del paese). Costruita con materiali provenienti dalla lava vulcanica pietrificata, deve il suo nome dalla frase quechua “Arequipai” che significa “si, fermatevi”. Gli amanti dell’eco-turismo possono ammirare attorno alla città due delle gole più profonde del mondo: il Cotahuasi e il Colca, oltre alla meravigliosa valle dei Vulcani di Andagua.
    Lungo questo percorso, la tappa per me più segnificativa è stata indubbiamente la visita al progetto Alsi. Dalla città di Puno, sul lago Titicaca, ci siamo spostati verso Juli (l’ultima città all’estremo sud del paese, al confine con la Bolivia) e salendo per più di 30 chilometri verso l’altipiano, abbiamo fatto conoscenza con gli amici di Choccocconiri. A catturare l’occhio dei pochi e coraggiosi visitatori che si avventurano in queste zone, a oltre 4000 metri di altitudine, è l’immensa distesa di montagne, spoglie e imponenti, sulle quali si scorgono il rossiccio della terra, il marrone della pietra, il giallo di rari ciuffi d’erba bruciati dal freddo e dal sole che fanno da contrappunto all’azzurro del cielo. Un paesaggio quasi lunare, interrotto soltanto da umili costruzioni di fango disseminate per l’intero altipiano.

    Siamo state accolte dalle famiglie di Felipe, Nestor e Persi: hanno condiviso con noi la casa, il cibo, il lavoro, la tradizione, mostrandoci un pezzetto del loro quotidiano. Ci siamo sedute attorno a una tavola imbandita con patate e formaggio, il pasto di ogni giorno; abbiamo dormito nella loro casa; li abbiamo ammirati mentre, con maestria, filavano (le donne) e si cimentavano nell’arte della tessitura (gli uomini); abbiamo preso parte alla cerimonia di “ringraziamento alla madre terra” (el pago a la PachaMama), bruciando incenso e foglie di coca.
    L’emozione è stata molto forte, come immediata è stata la percezione della fatica che si fà a Choccocconiri per andare avanti, per sopravvivere. E’una terra isolata, arida, inospitale, dove non cresce quasi nulla. Mancano acqua, cibo per uomini e animali e ogni genere di servizio. Si è in balìa del tempo e delle stagioni; basta poco per perdere tutto: una primavera poco piovosa o un uragano nel periodo del raccolto possono distruggere le risorse alimentari di un intero anno, non lasciando di che vivere. Anche quelle che per noi sono le cose più normali, a Choccocconiri rappresentano una laboriosa conquista: percorrere chilometri e chilometri a piedi per attingere acqua, per portare gli animali al pascolo, per andare a scuola, al mercato, dal dottore. Non ci sono mezzi di trasporto, se non qualche vecchia bicicletta.

    Ciò che ha lasciato il segno dell’esperienza vissuta non è solo l’aver toccato con mano l’estrema semplicità della vita di questi contadini, ma, soprattutto, l’aver avvertito la grande dignità e la consapevolezza con cui affrontano le difficoltà di ogni giorno, senza pensare che una soluzione potrebbe essere quella di abbandonare la loro terra. Perché questa, per loro, non è una soluzione: non vedono altra prospettiva di sviluppo al di fuori del campo; sarebbero costretti ad andare in città, ad alimentare la gran massa di “disperati” senza casa e lavoro che affolla le immense baraccopoli delle periferie. Vivono, invece, nella speranza che, con un piccolo aiuto, possono credere in un futuro diverso: avere alcuni servizi a disposizione (ad esempio, la luce e l’acqua) e una opportunità di commercializzazione dei loro prodotti. Così hanno vissuto il nostro arrivo nella loro terra: come un evento propizio, il segno che non sono più soli; così hanno salutato la nostra partenza: non la fine di qualcosa, ma l’inizio di una relazione che può cambiare la loro vita, mentre rimette in discussione la nostra.

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