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    8 dicembre 2006 - Roberta Ambrosi
    Fonte: Bollettino Res Marche Anno 2 N°3 - 04 dicembre 2006

    Una prima volta in Kenya

    come nasce un progetto di commercio equo e solidale

    Undici giorni di tempo disponibile per una prima volta in Kenya sono decisamente troppo pochi, anche se si va con un obiettivo dai contorni ben delineati. L’obiettivo mio e del mio compagno di viaggio Paolo, entrambi soci della cooperativa Mondo Solidale, era incontrare un gruppo di artigiani per verificare l’esistenza delle condizioni necessarie a dare vita ad una collaborazione di commercio equo e solidale.
    Si può partire per l’Africa come me, con la sensazione di umiltà di chi non ha precise aspettative ma poi si scopre pieno di sciocche preoccupazioni preconcette, fra cui pensare di dover alloggiare in mezzo alla savana tra indigeni seminudi, indossare capi di vestiario che non offendano la povertà della gente del posto, temere di essere scarnificata dalle zanzare africane…per poi ritrovarmi una sera in una confortevole casetta di campagna a disquisire di quanto siano feroci le zanzare italiane! Questo viaggio ha cancellato molti dubbi e deluso molte attese, per far accavallare una sull’altra nuove domande. E undici giorni sono davvero troppo pochi per poter rispondere, ma posso azzardare qualche idea.

    Ai confini di Nairobi. Qualcosa si muove: i matatu

    L’arrivo a Nairobi è coinciso con la scoperta della città e dei suoi confini, con un giro per il centro e la visita ad alcuni progetti della Ong Amani, che ha messo in piedi alcuni centri per ragazzi di strada e attività di formazione in campo sociale per i giovani delle periferie. “Casa di Anita” è un centro in cui alcune famiglie si prendono cura di ragazzine orfane, mentre “Kivuli” è un centro per ragazzi ed ospita anche alcuni profughi dando loro un posto in cui lavorare ad attività artigianali. Siamo sfortunati, le nostre visite coincidono entrambe con momenti in cui i centri non sono in piena attività. Lo stesso albergo che ci ha ospitato è il frutto di una delle attività promosse da Amani: l’agenzia turistica White Gazelle.
    Nairobi dà l’impressione di una città provvisoria e in movimento. Sono approssimative le sue strade: polverose quando c’è il sole, fangose quando piove, ma in ogni caso torni al tuo alloggio intriso di terra rossa. Quando c’è una pavimentazione, ci sono mattoni scardinati e ammonticchiati, tombini aperti, paletti di ferro poco visibili che sembrano trappole per occidentali poco agili. Sono ancora più approssimativi i suoi mezzi di trasporto, i matatu: furgoncini da quattordici posti strettissimi, tanto veloci quanto impietosi coi pedoni; talmente malconci che spesso vedi l’asfalto della carreggiata che scorre sotto i tuoi piedi e quasi sempre emettono fumi neri e densi che rendono l’aria irrespirabile. All’interno, musica reggae o rap americano sparato a tutto volume, che balli anche non volendo, per via degli scossoni della guida.
    La domenica, due giorni dopo l’arrivo, siamo in baraccopoli, a Korogocho, per la messa domenicale. L’impatto è devastante: la città, da approssimativa, addirittura scolorisce in un regno di lamiera grigia accatastata a formare baracche minuscole e vicinissime su un letto di rifiuti, in cui vivono centomila persone senza elettricità, fognature, nella maggior parte dei casi senza un lavoro o addirittura senza una famiglia. Le bancarelle dei venditori non hanno più nemmeno i banchi: miseri oggetti recuperati dalla discarica sono esposti direttamente a terra. La discarica di Nairobi è a poche decine di metri, ma è sotto i piedi e nella bocca dei bambini che mangiucchiano plastica lurida raccolta per terra. Tra qualche anno molti di quei bambini si prostituiranno se femmine, se maschi cammineranno con lo stomaco vuoto, un barattolo di colla da sniffare in mano e la solidarietà del branco. Se si è bianchi e non si è accompagnati da qualcuno che gode di grande considerazione tra i baraccati, si ha una ronzante e opprimente impressione che qualcosa possa accadere da un momento all’altro. Si aggiunga il grottesco scenario di decine di bambini che ti guardano e cantilenano in coro un’interminabile sequenza di “auariù?”. Poi sento un impercettibile solletico nel palmo della mano destra: sono alcuni di quei bambini che mi hanno presa per mano e mi accompagnano –toccando la mia strana pelle bianca– fino alla stanza della messa, dove si respira di nuovo umanità, per tutta la mattina.
    La messa a Korogocho è un mix di comunità e senso di offerta, come raramente accade da noi. Lo spezzare il pane è reale condivisione: della resurrezione, ma anche della croce che la accompagna. Si offre quello che c’è: poche verdure per chi non ha nulla. Si condivide tutto: il canto, le vicende della settimana appena trascorsa, la presenza degli ospiti stranieri. Imparo che amani vuol dire pace. Riusciamo a malapena a trattenere le lacrime, è un momento molto intenso anche se si parla un’altra lingua: non capiamo le parole, ma ne assorbiamo il senso.
    All’ingresso mi colpisce un fatto: mi viene fatto spazio su una panca e c’è posto anche per i bimbi, così li faccio sedere. Immediatamente un uomo dice loro di sedersi nel gradino in basso, come gli altri bambini: le panche sono per gli adulti. Ricordo di aver letto che fin dai primi mesi di vita i neonati nel continente nero sono tenuti in modo che imparino presto a tenere dritto il collo e guardare i grandi. I bambini africani mirano a diventare adulti, e il tempo è una conquista; da noi sono gli adulti che guardano indietro, e temono il tempo.

    Verso un’immobile e pacifica campagna

    Con le menti in moto per cercare di dare un contorno razionale a quanto visto, partiamo in autobus (un autobus vero) alla volta di Unyolo, a circa 100 km da Kisumu, sul Lago Vittoria, vera meta del nostro viaggio.
    Spostarci dalla città alla campagna, attraversando la Rift Valley e osservando il paesaggio cambiare varie volte da rurale a boschivo a coltivato a piantagioni di tè, risveglia in me vaghe velleità turistiche che prima di partire avevo incanalato nel desiderio in-fles-si-bi-le di vedere i fenicotteri rosa nel lago Nakuru. L’intenzione è rimandata, abbiamo un compito importante: conoscere i produttori e i coordinatori di una organizzazione, Uvip. Sto viaggiando verso quello che è il cuore dell’attività che mi impegna come volontaria, sto per vedere come nasce (o non nasce) un progetto di commercio equo!
    Avevamo capito che non era ben chiaro alle persone con cui eravamo in contatto via mail cosa fosse il commercio equo e solidale che proponevamo loro, né il perché di tante nostre domande sui costi e sull’organizzazione. Da una parte, era dunque necessario chiarire la nostra proposta e capire quali potessero essere le esigenze di quelle persone; dall’altra, avevamo un forte bisogno di conoscere questa realtà a noi del tutto estranea, che avevamo faticato a comprendere dai questionari predisposti dal Comitato Progetti della nostra cooperativa. Inoltre, dovevamo costruire una collaborazione proficua con la nostra stessa guida, Francis, ex bambino di Korogocho ed ora collaboratore di Amani, appositamente ingaggiato per permetterci di comunicare anche con chi non parlasse inglese.
    Ci raccolgono a Kisumu una suora magra e altissima, con due occhiali enormi e un sorriso simpatico, suor Gladys, e un signore pacato, Francis, che scopriremo essere il veterinario del villaggio, di quelli che aiutano i vitelli a nascere quando serve. Un taxi ci porta lontanissimi su strade impossibili oltre la linea dell’equatore, e già intuiamo quali possono essere alcuni dei problemi di chi abita in un posto così isolato. Quando arriviamo è già buio e alla luce di una lanterna, in una piccola casetta, troviamo –ancora per poche ore– alcuni dipendenti e volontari di una Ong statunitense che sta finanziando l’istruzione dei bambini ed aiutando gli artigiani, riuniti in società, ad organizzarsi come produttori. Uvip già effettua piccole forme di prefinanziamento grazie alle quote sociali versate dagli appartenenti. Inoltre organizza adozioni a distanza e percorsi ecoturistici attraverso un ufficio a Nairobi, gestito da Helen, la ragazza che si è amorevolmente presa cura di noi durante la nostra permanenza. Alcuni turisti decidono a volte di soggiornare nel villaggio, condividendo una vita semplice ed essenziale.
    Ad Unyolo vivono circa diecimila persone di etnia Luo. I Luo vivono in case tradizionali di fango con il tetto di paglia o lamiera, senza acqua corrente né elettricità. Ogni famiglia occupa un homestead, un ambito famigliare appartato in cui attorno e frontalmente alla casa paterna viene costruita una capanna per la notte per ogni figlio maschio maggiorenne. Il paesaggio è rigoglioso ed il terreno fertile, ma le famiglie hanno poca terra, generalmente coltivata a mais, fagioli ed altri legumi e ortaggi, e a volte qualche gallina o mucca, per cui in generale la vita è a livello di mera sopravvivenza. Scopriamo che al mercato settimanale gli scambi sono ridotti al minimo e in linea di massima sono già previsti (è il caso della carne, che viene macellata secondo le richieste, dato che non è possibile refrigerarla). Per il piccolo artigianato rurale (cesti, cappelli, monili) non c’è domanda. La situazione migliora, ma non troppo, nel vicino mercato di Boro.
    I trasporti sono un capitolo a parte: una mattina, dopo una lunga attesa sotto un sole impietoso, il nostro referente decide che è meglio lasciar perdere il matatu. Sperimentiamo, nell’ordine, una bici-taxi, una camionetta e infine l’ambito matatu. Il conducente mi chiude un dito in mezzo allo sportello, ma il mezzo è talmente logoro che tra la carrozzeria e lo sportello c’è esattamente lo spazio che serve al mio dito per non rimanere schiacciato!
    La scuola costruita dalla Ong americana funge da asilo e scuola primaria per un totale di 70 bambini, che qui ricevono, oltre all’istruzione, una prima colazione e il pranzo. Il che significa molto, soprattutto per i numerosi orfani che hanno perso i genitori a causa dell’AIDS e che sono a carico di altre famiglie o di persone molto anziane. Le stesse insegnanti svolgono il loro lavoro in gran parte come servizio volontario. La scuola è proprio a fianco alla casetta che ci ospita e la mattina presto è un piacere starsene scalzi o in ciabatte a chiacchierare con i primi bimbi arrivati.
    Gli incontri con gli artigiani di Unyolo, quasi sempre donne, sono molto stimolanti, soprattutto perché ci lasciamo sorprendere da una grande voglia di dare una svolta alle sorti della propria comunità, e di farlo insieme. Una ragazza intraprendente ci fa un milione di domande: vuole capire ogni dettaglio del commercio equo e questo ci rallegra, perché si crea una condivisione che è il presupposto di una relazione alla pari. Francis, la nostra stessa guida, si rivela una presenza essenziale, perché, una volta che gli abbiamo spiegato le nostre intenzioni, ne diventa non solo l’interprete, ma anche il promotore.
    Ad Unyolo incontriamo due gruppi che producono rispettivamente cesti e monili di osso, corno e perline. A Kisumu c’è un altro gruppo, sempre originario di Unyolo, che produce oggetti in pietra saponaria. Due artigiani di Tabaka, l’unica località di tutta l’Africa dove si estrae la pietra, hanno insegnato loro come lavorarla ed, in seguito, il gruppo ha trasmesso questa competenza ad una persona con problemi fisici che, in questo modo, può lavorare. Come dire che la comunità cerca di sostenersi anche quando si dirama su altre località alla ricerca di mercato.
    Un momento molto bello è quando l’altro Francis, il veterinario, che ci accompagna nel giro di visite ai produttori e che è il vero “animatore” della comunità, ci invita ad entrare nella sua casa di fango. Ci presenta sua moglie e i suoi bambini e ci mostra la sua libreria, con tanto di TV soprammobile sullo scaffale più in alto (ma mi viene il dubbio che ogni tanto la veda, perché da una foto scopro che è collegata a una batteria!). Grande appassionato di scienze naturali, ci obbliga moralmente a seguirlo in uno zoo di animali selvatici a Kisumu, in cui ci illustra per filo e per segno le caratteristiche di ciascun animale. Decido di fotografare solo le antilopi, gli unici animali liberi del parco, e di farmi circondare da decine di libellule trasparenti. E’ Francis che spontaneamente annulla gli incontri con alcuni produttori perché comprende che non sono organizzati in modo democratico e paritario, compatibile con il commercio equo, pertanto è necessario prima aiutarli a modificare la propria struttura. A Tabaka, durante una visita alla cava di pietra saponaria da cui Uvip acquista, lo stesso Francis mi dice all’orecchio che raccoglierà dai minatori informazioni più attendibili in assenza del datore di lavoro, il quale ci osserva seccato mentre chiediamo e scattiamo foto. Sembra, insomma, che si sia creata una certa fiducia. “Mi avete detto di essere paziente, ed io sono stato molto paziente”, rivela Francis ridendo: si riferisce con ironia al nostro zoppicante inglese!

    Il ritorno alla città

    Ad Unyolo l’immobilità economica è la stessa di Korogocho e si chiama “sussistenza”. Ma la variante agreste ha una risorsa unica, protettiva: il sostegno della comunità.
    Il tragitto verso la capitale ci mostra meravigliosi paesaggi, che sfumano da verdi e rotonde colline a vasta savana, e ci regalano case masai, lunghe file di asini, un crepuscolo infinito e una zebra che troviamo all’improvviso in mezzo alla strada. Ma tornare a Nairobi suscita in sé un certo malessere. Saliamo a Kisii, vicino Tabaka, su un matatu chiamato “Shuttle”, che come di regola parte solo quando è pieno. Nonostante il viaggio sia piuttosto impegnativo -dura nove ore, quanto il volo da Nairobi a Bruxelles- lo Shuttle si mette in moto solo se qualcuno estrae un pezzo di lamiera sotto i nostri piedi, scoperchia la batteria e ci versa sopra dell’acqua: misteri della tecnologia meccanica keniota.
    Durante gli ultimi giorni a Nairobi ci rituffiamo nelle periferie, per cercare di capirci finalmente qualcosa. Stavolta visitiamo Kibera, uno slum di 800.000 abitanti, 8 volte Korogocho, un groviglio di lamiere, salite e discese e rivoli putridi fra cui è fisicamente faticoso camminare. Con una variante rispetto a Korogocho: qui la gente ha deviato i cavi comunali dell’elettricità ed ha portato alle baracche la luce e la musica, che esce dalle numerose radio delle bancarelle. Cominciamo a comprendere che qualcosa si muove anche in baraccopoli, anche se l’economia ristagna: ci sono associazioni che fanno sensibilizzazione circa il problema dell’AIDS e contro la stigmatizzazione dei malati, ci sono laboratori di calzolai impotenti di fronte alla concorrenza delle ciabatte di plastica cinesi, ci sono piccoli negozi dove i poveri riescono a comprare farina di mais a basso costo con cui riescono a tirare avanti con un euro al giorno. Ci sono persino piccole trattorie: ti accorgi che lo sono solo dopo che hai attraversato strati di lamiera e sei già dentro. Preparano piatti gustosissimi: i più diffusi sono a base di riso, mais, patate, spezzatino, pesci del lago Vittoria e sukumawiki, la verdura “che fa arrivare alla fine della settimana”.
    Entriamo nella casa-laboratorio di un giovane. E’ un Luo della zona di Kisumu, infatti la struttura è di fango con l’anima di pali di legno. All’interno, ferri accatastati, pochi centimetri di spazio e fogli di giornale cadenti alle pareti. Lui ed altri ragazzi lavorano l’osso e confezionano bracciali in un’altra baracca, piena di fumo (perché gli ossi vengono messi a bollire su un fuoco acceso all’interno), di polvere d’osso (pericolosissimo residuo di lucidatura e foratura) e di materiali vari che costituiscono le pareti. Non c’è mercato, dice. Chi può comprare gioielli, se ha a mala pena di che mangiare? Si è trasferito qui dalla campagna per cercare fortuna: un tizio gli ha insegnato a lavorare l’osso e qui c’è corrente elettrica per mettere in funzione le attrezzature. Cominciamo a capire. “Perché non te ne torni a Siaya?” Risponde che non avrebbe di che vivere. Cominciamo ad avvertire che l’unica cosa davvero in moto in questo Paese è l’aspettativa.
    L’aspettativa ribolle e si nutre di desideri, il marketing lo sa. E anche se in Kenya desiderare è un lusso per pochi, le gigantografie di una catena di centri commerciali crea dal nulla il bisogno della varietà con slogan come “Experience more!”, “Fantastic variety”, “You need it, we’ve got it”. Intanto il mercato dell’abbigliamento usato che arriva dal nostro mondo spiazza un’intera industria ed azzera milioni di posti di lavoro.
    Il giorno dopo visitiamo per la seconda volta Korogocho, in particolare i progetti di produzione in essa presenti (la cooperativa che separa e rivende i materiali della discarica, una scuola di sartoria, tessitura e tye-die e la cooperativa di commercio equo e solidale Bega Kwa Bega, cioè “spalla a spalla”). Gino Filippini è un simpatico sessantenne a servizio della parrocchia dei comboniani, con Zanotelli prima, con don Paolo oggi, e supporta tali attività. Ci racconta la baraccopoli in un modo così semplice, come insieme di cause ed effetti, che in qualche misura ridimensiona l’orrore che avevo provato la prima volta. In qualche modo lo decodifica.
    Ci spiega che in molte persone di mezza età comincia ad insinuarsi l’idea di un ritorno nei luoghi di origine. Sono soprattutto i giovani ad essere attratti da Nairobi. Vivere in uno di questi inferni urbani è considerato una parentesi temporanea, fino a che non arrivi l’occasione giusta, e comunque in città si trova sempre un modo per arrangiarsi. Intanto la parentesi può durare anni, col risultato di amori che iniziano e finiscono presto e di figli abbandonati dai padri prima ancora di vedere la luce. Paradossalmente, è soprattutto chi ha frequentato la scuola che accetta di vivere qui, sognando un avvenire migliore. E pensare che tutti in Kenya riconoscono un grande valore all’istruzione, primo fra tutti il presidente Kibaki, che ne ha fatto uno dei capisaldi del suo programma. Tornare a casa è difficile, come è difficile confessare una sconfitta. D’altronde la provincia non offre alcunché e gli stessi villaggi o città sono fatti di niente.

    Le dimensioni del vivere bene

    Abbiamo così la conferma di essere sulla giusta strada: è la campagna che va riqualificata e resa più vivibile. Il nostro piccolo progetto di commercio equo può fare qualcosa. Undici serate a condividere pensieri e a cercare risposte si concentrano in questo ultimo giorno. Forse la vita rurale è la dimensione umana ottimale. Le dimensioni del villaggio sono quelle che derivano dalla storia familiare e comunitaria di chi lo abita, e permettono di non essere soli; quelle delle baraccopoli sono talmente grandi da inghiottire tutto: persone, famiglie, identità. Fino a diventare cinghie di povertà così strette da non permettere neppure di fuggire.
    Al termine di questo viaggio ripenso alle persone incontrate e sono convinta che, nonostante la sospirata sosta al lago Nakuru sia stata poi annullata, così tanti incontri valgano più che la vista di qualche migliaio di fenicotteri rosa.

    Per dettagli o informazioni

    contattare Roberta Ambrosi, e-mail: ambeba2@yahoo.it

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