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    l gioco, il dono e il lavoro riconciliato con l’esistenza

    Propongo una riflessione a partire dal confronto tra due concezioni del mondo. Due paradigmi a prima vista opposti e inconciliabili, che invece possono trovare un’inusitata conciliazione nelle dimensione apparentemente più compromessa con uno di essi: il lavoro.
    24 novembre 2010 - Alberto Peretti

    Propongo una riflessione a partire dal confronto tra due concezioni del mondo. Due paradigmi a prima vista opposti e inconciliabili, che invece possono trovare un’inusitata conciliazione nelle dimensione apparentemente più compromessa con uno di essi: il lavoro. Purché, e qui sta il punto, esso venga riprogettato a partire dalle forme del gioco, e quindi anche del dono. Sottolineo che non intendo proporre di giustapporre le dinamiche di gioco-dono al gesto produttivo. O peggio di ritagliare oasi di improduttività all’interno di una realtà dominata dal pensiero utilitario. Piuttosto di far scorrere nell’atto produttivo la linfa dell’esistenza. Di innestare in esso alcuni tra i più significativi tratti dell’umano. Un tentativo apparentemente utopico o al più funambolico. Che invece, se si osa pensarlo, permette di superare l’irrigidimento categoriale e il pensiero dualistico che hanno favorito sterili veti ideologici e che hanno finora impedito un’evoluzione e una trasformazione qualitativa del modello capitalistico e di mercato.

    Perché l’abbinamento gioco – dono? Con il termine "gioco" non mi riferisco ad una dimensione circoscritta all’infanzia o ad un serie di attività più o meno regolate con finalità ricreative o di divertimento. Intendo per gioco una peculiare forma di esistenza, un “fenomeno esistenziale fondamentale” (Fink 2008, p. 12. Vedi Peretti, 2001) fondato su categorie di pensiero e d’azione in grado di caratterizzarlo rispetto agli altri esistenziali che la cultura occidentale ha ciecamente eletto ad unici costituenti la natura dell’essere umano.
    Il gioco rappresenta soprattutto una sfida ad alcune categorie canoniche ed egemoniche del pensiero occidentale, che costituiscono lo sfondo concettuale a partire da cui sono nati e cresciuti alcuni saperi dominanti del nostro tempo (l’economia è certamente uno di essi):
    -Bivalenza (per cui ogni enunciato è vero o falso ovvero ha un valore di verità 1 o 0 e in cui vale la legge del terzo escluso A o non-A).
    -Finalità (per cui ogni azione è strumentalmente collegata ad uno scopo esterno ad essa)
    -Distinzione (per cui i fenomeni sono rigidamente circoscritti all’interno di canoniche categorie di appartenenza)
    -Successione (per cui i fenomeni sono vincolati a una legge di successione e di non sovrapponibilità temporale).

    Il gioco è quindi un modo di organizzare la vita fondandola su alcune peculiari categorie concettuali. Tra esse e senza alcuna pretesa di esaustività:
    -Ambivalenza – Contraddizione (per cui viene trascesa la legge del terzo escluso e vale A e non-A;
    -Distanza di “tra” o di alleggerimento (per cui cose ed eventi vengono affrontati e vissuti distanziandosi dall’immediatezza istintuale e dal loro canonico significato);
    -Ulteriorità (per cui cose ed eventi vengono osservati e vissuti in maniera tale da non farli somigliare sempre e solo a sé stessi).
    -Intrinsecità (per cui viene trascesa la dimensione progettuale e utilitaria e il fine si trova nell’attività stessa);
    -Contemporaneità – compossibilità (per cui per ogni fenomeno vale la possibilità della contemporanea appartenenza a opposte cornici di significato).

    Quanto segue si fonda sull’idea che il dono può essere fatto pienamente rientrare nella categoria dei comportamenti di gioco. Il gioco, certo, non è solo dono, ma senza dubbio il dono è compreso nelle pratiche di gioco, condividendo con il gioco alcuni tratti essenziali.
    Non affronterò il tema del gioco-dono in generale e in astratto. Piuttosto tenterò di evidenziare le possibili letture economiche del gioco-dono, individuando in un lavoro rimesso in gioco la dimensione mediale in grado di favorire la riconciliazione tra dimensioni del produrre e dell’esistere in apparenza inconciliabili.

    - Economia di mercato - capitalista
    Meccanismo di Produzione, Accumulo
    Differimento di fruizione – godimento. Dimensione del futuro
    Logica strumentale
    Investimento produttivo
    Ragion utilitaria
    Valore di scambio – d’uso

    Economia di gioco - di dono
    Principio della "perdita"
    Intrinsecità di fruizione – godimento. Dimensione del presente
    Logica autotelica
    Investimento improduttivo (dépense)
    Ragion esistenziale
    Valore di legame

    Propongo la seguente definizione di economia di mercato-capitalista: “Sistema produttivo strumentalmente finalizzato alla produzione e all’accumulazione di ricchezza, tendenzialmente svincolato da un controllo sociale, retto da logiche di interesse e indifferente alla complessità e varietà dell’esistenza".
    Intendo per economia di gioco: "Agire libero e improduttivo, privo di carattere strumentale e utilitario, indifferente a processi di accumulo, espressione della complessità e varietà dell’esistenza umana".
    Come possono coesistere logica di mercato e pensiero di gioco-dono?

    Prendiamo le mosse dal pensiero, per certi versi ancora oggi eretico, di Georges Bataille. Come è noto, Bataille divide le attività umane in dispendi produttivi e in dispendi improduttivi. L’investimento (o dispendio) produttivo è quell’attività svolta al fine di carpire energia in vista di una sua utilizzazione. In una prospettiva esistenziale l’investimento produttivo risulta altamente improduttivo (in senso negativo). E’ infatti un gesto fondato sul processo di sottrazione di valore e di senso a cui viene sottoposto il gesto in se stesso. In quanto utilizzabile il gesto in sé perde di significato. Il suo senso gli deriva soltanto dall’utile che da esso è ottenibile. Nel gesto produttivo l’attività dell’uomo viene depauperata e immiserita in quanto espropriata di ogni suo intrinseco valore.
    L’investimento improduttivo, viceversa, è in termini esistenziali altamente produttivo (in senso positivo). Si fonda infatti su una valorizzazione del gesto in se stesso, in quanto tale. Il senso del gesto sgorga dal suo interno, scaturisce dal suo compiersi e non dalle sue conseguenze. In altre parole, il prodotto finisce per coincidere con la prestazione. Nell’investimento improduttivo il gesto si svincola dalle sue conseguenze e recupera la sua sovranità.
    La logica di mercato e il processo capitalistico tendono a sopprimere le spese improduttive e a trasformarle in spese produttive, cioè in consumo di prodotti scaturiti dal processo di produzione e conservazione, funzionali al suo perpetuo mantenimento. Sopprimendo l’improduttivo impediscono ogni manifestazione di autentica, in quanto intrinseca, produttività. L’immiserimento esistenziale che ne è derivato è sotto gli occhi di tutti. La denuncia fatta da Bataille più di sessant’anni fa è di sconcertante modernità: “Ogni uomo dovrà vedere un giorno che i comportamenti utili non hanno di per sé alcun valore, che solo i comportamenti gloriosi arrecano luce alla vita, solo essi hanno saputo valorizzarla”. (Bataille 2000, p. 47). Che cosa è un comportamento glorioso? E’ “una libera emissione”, è un consumo-dispendio di energia indipendente da finalità di utilità o di acquisizione. E’ un dispendio improduttivo. E’ gesto gratuito. E’ dono di sé. E’ agire “libero”, gesto ritornato sovrano.

    L’investimento produttivo nientifica ciò che Bataille chiama i "legami di immanenza". Viene cioè spezzato il rapporto di senso che ci collega in maniera esistenzialmente profonda all’agire. Mentre “produco” nulla mi lega all’atto in sé e neppure a me stesso nel mentre produco. Il carattere produttivo e progettuale dell’atto ci proietta fuori dall’atto e ci collega esclusivamente al pro-dotto che ne scaturisce e all’utile che ne deriva.
    I legami di immanenza sono rapporti con l’attività di carattere autarchico e autotelico. Trovano cioè il loro significato e la loro computa identità nel loro stesso dispiegarsi. Occorre sottolineare che il carattere di immanenza di tali legami non significa assolutamente che essi non possano avere carattere “trascendente” (nel senso di un loro collegamento con una dimensione non puramente materiale). Tutt’altro. I legami di immanenza permettono infatti all’uomo di re-ligiosamente collegare il suo fare all’universo del sacro, alla qualità dei legami che lo uniscono alla sua interiorità, agli altri esseri, alla sfera religiosa dell’esistere.

    La logica utilitaria e produttiva spezza l’originaria intimità dell’essere umano con le cose del mondo. L’utile assurge a mediatore universale e ad equivalente generale di valore. Il lavoro umano, reso dimensione esclusivamente produttiva, diventa il principale strumento della colonizzazione valoriale del mondo operata del pensiero economicista. Assoggettando il mondo, il paradigma economicista non solo ha ridotto le cose a degli usabili, ma, rendendo il lavoro una dimensione priva di ogni valenza esistenziale, "sostituì fin dall’inizio all’intimità, alla profondità del desiderio e al suo libero scatenarsi, l’incatenamento ragionevole ove la verità dell’istante presente non importa più, bensì importa l’ulteriore risultato delle operazioni. Il primo lavoro fondò il mondo delle cose […]. A partire dalla situazione del mondo delle cose, l’uomo diventò egli stesso una delle cose di questo mondo, almeno nel tempo in cui lavorava" (Bataille 1992 e 1993, p. 105). L’anelito umano a sentirsi in immediata relazione con il mondo non scemò. Semplicemente si adatto alle mutate circostanze. Se il lavoro asservito al principio di utilità ridusse il valore di ogni cosa al solo uso che essa ha, per recuperare un qualche legame con un mondo reso cosa l’uomo procedette alla propria reificazione. Il processo di alienazione – reificazione lavorativa non va quindi interpretato come l’opposto della perduta intimità, piuttosto come un equivoco e perverso tentativo di farla, nonostante tutto, sopravvivere.

    A partire dallo sfondo teorico elaborato da Bataille è possibile immaginare l’applicazione delle dimensioni del gioco e del dono alla sfera lavorativa? Come è possibile innestare dosi di dispendio improduttivo nella dimensione che pare maggiormente compromessa con la logica dell’investimento produttivo, cioè nel lavoro ad essa asservito?
    Per riuscirci occorre ridare gioco al lavoro, cioè consentirgli innanzitutto una vitale improduttività, far sì che nelle sue dinamiche venga rivalutato il valore dell’intrinseco. Il fine è permettere a chi lavora di ritrovarsi relazionalmente legato a ciò che fa, a chi lo circonda, al senso profondo del suo fare. In altre parole, e qui sta il punto, si vuole consentire a chi lavora di donarsi nel fare, di condurre una gloriosa esistenza di lavoro, di operare nell’atto produttivo liberi dispendi di sé, improduttivi in termini utilitari, ma massimamente produttivi in senso esistenziale.
    Il gioco – come il dono – permette di superare la separatezza servile indotta dalla ragion utilitaria che ingabbia le nostre vite. Il gioco – come il dono – consente all’essere umano di recuperare un’ampia sovranità esistenziale, lo rende capace di trovare in se stesso un suo proprio senso, in tutte le diverse dimensioni della vita, lavoro compreso.

    Il principio di performanza (fondato sulla sola significatività del prodotto dell’agire e della sua possibile traduzione monetaria) ha cancellato la possibilità di ricavare senso, soddisfazione, e quindi ben essere, dall’intrinseco agire. Ha cioè minato l’autotelicità del gesto lavorativo. La sua sorte, in un universo egemonizzato dal principio economicistico di prestazione, non dovrebbe stupire. Come opportunamente nota Luigino Bruni, “l’idea che i soggetti percepiscano una ricompensa dal comportamento stesso, e non solo dai risultati che esso produce, è un concetto estraneo alla tradizione dell’economia” (Bruni 2006, p. 98).

    Il gioco - come il dono - “regala il presente” (Fink 2008, p. 19). La logica strumentale e il pensiero utilitario ci trascinano costantemente fuori di noi. Impediscono ai nostri atti di dimorare in se stessi e a noi in loro. L’atteggiamento pro-gettuale ci sottrae al nostro presente. Il gioco, sovranamente bastante a sé stesso, “realizza un trattenersi, per così dire un istante, un lampo di eternità” (Fink, p. 19). Il gioco, come il dono, è esperienza di pura immediatezza. In termini aristotelici gioco e dono sono forme di entelécheia, cioè azioni perfette in quanto perfettamente compiute, forme di “puro presente che si è lasciato alle spalle ogni produrre ed è quindi immediato” (Heidegger 2005, p. 868). Dimorano in loro stesse e permettono all’essere umano il raccoglimento in sé stesso.

    Come potrebbe realisticamente il gioco - e quindi il dono - inscriversi all’interno di logiche lavorative prigioniere della prospettiva capitalistica, che quindi hanno nella pianificazione progettuale e nel raggiungimento di uno scopo esterno all’agire (il prodotto – l’arricchimento) la loro esplicita ragion d’essere?
    Occorre sottolineare un aspetto del gioco che porta luce ad un concetto così importante per le dinamiche di dono: la gratuità. La gratuità, suggerisce la prospettiva di gioco, non consiste nell’assenza di scopi, piuttosto nella loro ulteriorizzazione. Il gioco non è opposto allo scopo. Piuttosto gli è ulteriore. L’agire di gioco si caratterizza per la sua eccedenza – improprietà rispetto alla mera finalità, non coincide mai con i motivi estrinseci che possono indurre ad intraprenderlo. Sua caratteristica – come per il dono - è la gratuità: ma non, si badi, in quanto il gioco rifiuta l’utile, piuttosto in quanto non si esaurisce mai in esso, pena la sua trasformazione in qualcosa che gioco - o dono - non è.

    Anche il gioco, come chiarisce E. Fink, ha i suoi scopi, “preso nella sua interezza è un’azione determinata da uno scopo, e anche i singoli momenti nel corso del gioco hanno i loro scopi particolari, che si armonizzano gli uni con gli altri” (Fink 2008, p. 18). Il gioco ha però una sua autosufficienza, un “suo senso conchiuso e circolare” che dà costante valenza autotelica ai momenti retti dal principio di strumentalità. Il gioco in qualche modo riesce ad “utilizzare” la strumentalità per “scopi interni a sé, che non rimandano ad altro” (idem, p.18). Il gioco è in grado di sostenere un suo “scopo immanente” che “non è rimandato progettualmente al supremo scopo finale come invece gli scopi delle altre azioni umane” (idem, p. 18). La sua autodeterminazione, lo ripeto, non si oppone in modo assoluto a momenti eterodeterminati. Ottiene però certi scopi non considerandosi mai semplice mezzo per raggiungerli. Accogliendoli, riesce a giocarli, a spezzarne l’egemonia, irretendoli in una logica ulteriore che trova il suo senso in se stessa, nel suo dipanarsi.

    Soltanto sospendendo le canoniche categorie disciplinari, giocandoci, possiamo cessare di considerare i comportamenti ambigui o paradossali come forme illogiche o irrazionali. Soltanto recuperando alla loro compossibilità discipline o aspetti dell’essere umano mantenuti in rigoroso stato di reciproco isolamento possiamo tentare di ibridare forme di pensiero e paradigmi di comportamento altrimenti mutualmente escludentisi. Lo aveva perfettamente compreso Simone Weil quando scriveva: ”Tutti ripetono, con una terminologia leggermente diversa, che soffriamo di uno squilibrio dovuto ad uno sviluppo esclusivamente materiale della tecnica. Lo squilibrio può essere riparato solo con uno sviluppo spirituale nel medesimo ambito, vale a dire nell’ambito del lavoro” (Weil 1990, p. 95). La soluzione che la Weil propone è, per l’appunto, necessariamente paradossale: lo spirito nella tecnica, nel lavoro; un po’ come il fine nel mezzo; o la gratuità nel profitto…

    Il valore di legame che caratterizza l’investimento improduttivo lo collega in maniera evidente al gioco-dono. L’atto produttivo in perenne stato di sudditanza del principio di performanza conosce due soli valori: il valore d’uso e il valore di scambio. Cioè il a che cosa serve e il quanto vale. Il gioco e il dono trovano il loro senso profondo nel valore di legame che li giustifica. Nel che cosa vale. Non mi riferisco al solo “legame sociale tra le persone” (Godbout 1993 e 2002, p. 30). Il gioco e il dono hanno un più profondo valore “circolatorio”. Consentono che nell’agire, anche economico, “i fenomeni fondamentali e decisivi dell’esistenza umana siano reciprocamente implicati e intrecciati” (Fink 2008, p. 13). Ricollegano al “va e vieni delle anime e alle cose confuse tra loro” (Mauss, Saggio sul dono, cit. in Godbout, p. 271). Gioco e dono ricostituiscono tra uomo e realtà un’”intimità perduta” (Bataille 1992 e 2003, p. 106) fondata su un legame d’innocenza. Hanno cioè una funzione liberatoria. Ulteriorizzando e trascendendo il rapporto mercantile con il mondo, rapporto retto dalla logica strumentale e dalla ragion utilitaria, permettono di ricostituire il legame profondo, vitale (sacro) con l’essenza di ciò che viene compiuto, con l’identità nostra e di coloro che ci circondano, con il senso del proprio fare. Gioco e dono rivitalizzano l’intera realtà, ridonano ad ogni forma vivente un’anima propria e indipendente.

    Gioco e dono consentono agli esseri umani "il dono del proprio essere incondizionato" (Bataille 2000, p. 185). "Incondizionato" in che senso? L’incantamento operato sulla realtà dal principio produttivo e dalla ragion utilitaria fa degli uomini delle pure cose e delle cose semplici merci. L’incondizionatezza non significa altro che l’apparizione di uomini e di cose finalmente ri-ulteriorizzati, ricondotti cioè alla loro vitale complessità. Riportati a un rapporto con se stessi e con il mondo libero dalla mediazione fagocitante della logica mercantile. L’incantamento produttivistico continua ancora oggi a produrre i suoi effetti soprattutto attraverso un lavoro separato dalla concreta esistenza umana, incapace di parlare all’uomo e di adattarsi alla sua complessità (cfr. Peretti 2008). L’introduzione nelle dinamiche lavorative di logiche proprie del dono-gioco è uno dei necessari correttivi alle banalizzanti logiche del mercato e del capitale. Costituisce un passaggio obbligato per riconciliare le dinamiche di un lavoro asservito al principio di prestazione con la varietà e la ricchezza dell’esistenza.

    Innestare nel fare lavorativo produttivo dosi di gioco-dono, cioè pensieri e comportamenti retti da una ragion esistenziale e contrassegnati, tra l’altro, da dispendio di sé, intrinsecità, centratura sul presente, autotelicità, improduttività materiale - produttività valoriale, complessità esistenziale, relazionalità consente di immaginari scenari di straordinario interesse per un’economia finalmente al servizio dell’armonico e autentico arricchimento dell’uomo e del mondo.

    Riferimenti bibliografici
    Aristotele, Metafisica, Rusconi, Milano
    George Bataille (1992 e 2003) [1967], La parte maledetta, Bollati Boringhieri, Torino.
    - (2000) [1976], Il limite dell’utile, Adelphi, Milano.
    Luigino Bruni (2006), Reciprocità, Bruno Mondadori, Milano.
    Eugen Fink (2008) [1957], Oasi del gioco, Cortina, Milano.
    Jacques Godbout (1993 e 2002) [1992], Lo spirito del dono, Bollati Boringhieri, Torino.
    Martin Heidegger (2005) [1961], Nietzsche, Adelphi, Milano.
    Alberto Peretti, (2008), I Giardini dell’Eden. Il lavoro riconciliato con l’esistenza, Liguori, Napoli.
    Alberto Peretti (2001), Il dubbio di Amleto. Il gioco come modo di pensare, sentire, agire, Edizioni dell’Orso, Alessandria.
    Simone Weil (1990) [1949], La prima radice, SE, Milano.

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