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    Il popolo dell’acqua verso i referendum

    Il 12 e 13 giugno andremo a votare per decidere, fra le altre materie sottoposte a referendum, se in Italia l’acqua sarà ancora gestita come bene comune o affidata alle leggi del mercato. Un momento importante di vita democratica che chiede la partecipazione di tutti. Anche per fermare il tentativo del governo di annullare il referendum, facendogli mancare il quorum necessario del 50% più uno dei votanti.
    13 aprile 2011 - Eugenio Melandri e Nicola Perrone

    a cura di Eugenio Melandri e Nicola Perrone
    Approfondimenti

    Ce la faremo Il 12 e 13 giugno andremo a votare per decidere, fra le altre materie sottoposte a referendum, se in Italia l’acqua sarà ancora gestita come bene comune o affidata alle leggi del mercato. Un momento importante di vita democratica che chiede la partecipazione di tutti. Anche per fermare il tentativo del governo di annullare il referendum, facendogli mancare il quorum necessario del 50% più uno dei votanti.

    È questo, infatti, il senso della decisione di non accorpare i referendum alle elezioni amministrative di maggio, spostandone la data a metà giugno, in piena estate. Con l’aggravante che questa decisione costerà alle casse dello Stato oltre 300 milioni di euro. E in un periodo di vacche magre e di tagli che toccano settori vitali, non si tratta di una cifra di poco conto. Da anni ci battiamo perché nel nostro paese (e in tutto il mondo) la gestione dell’acqua sia pubblica, partecipata e democratica. Solidarietà e Cooperazione Cipsi, il Contratto Mondiale sull’acqua da oltre 15 anni ha fatto di questo impegno uno dei cardini del proprio lavoro. Da sempre abbiamo difeso l’acqua dagli speculatori, dal mercato e dagli interessi. Un cammino, questo, che abbiamo fatto con tanti altri compagni di viaggio. Sono nati così in tutto il territorio nazionale tanti comitati locali, fino a formare una rete viva e attiva in tutto il paese. È nato quello che è stato definito “il popolo dell’acqua”. Un popolo inclusivo, vivace, propositivo. Un popolo che mette insieme tante sensibilità, tante associazioni di base, ma anche sindacati ed enti locali, tanta gente che chiede soltanto il diritto di usufruire dei beni comuni senza mercificarli e porli sotto l’egida del profitto di pochi, attraverso le cosiddette leggi di mercato. È stato questo il motivo che ci ha spinti a promuovere questi referendum. Con il grande risultato di raccogliere, in pochissimo tempo, quasi un milione e mezzo di firme. Adesso si tratta di vincere la sfida definitiva, contrastando il tentativo di invalidare il referendum attraverso l’astensionismo. Di qui l’impegno a portare alle urne almeno 25 milioni di votanti. Certi come siamo che la stragrande maggioranza della gente del nostro paese sia contraria alla privatizzazione dell’acqua. In una parola, è arrivato il momento di schierarsi, di darsi da fare. Il percorso in difesa dell’acqua bene comune ha bisogno del contributo di tutte e tutti attraverso la partecipazione fino al voto referendario. Ha bisogno di un “passaparola” organizzato, anche per contrastare la mancanza di informazione e il tentativo di invalidare questo evento che rappresenta invece un momento alto di partecipazione democratica. Se ognuno di noi farà la propria parte, siamo sicuri di farcela.

    Questo fascicolo è composto di quattro parti.

    La sfida dell’acqua nel XXI secolo: Rosario Lembo, presidente del Comitato italiano per un Contratto mondiale sull’acqua, illustra il tema dell’acqua ponendolo all’interno delle grandi sfide che attraversano questo nostro tempo, soprattutto quella ambientale e dei cambiamenti climatici. I quesiti referendari: viene illustrato l’itinerario che ha portato alla proposta di referendum e il contenuto dei quesiti referendari. Perché votare e votare sì: la legislazione italiana sull’acqua. Le ragioni del sì, confrontate anche con gli argomenti di chi sostiene le ragioni del no. Un piccolo vademecum di proposte di suggerimenti: bibliografia e sitografia. Proposte di lavoro in vista della campagna referendaria.

    1. La terra, l’acqua e i beni comuni

    “Non ereditiamo il mondo dai nostri padri, ma lo prendiamo in prestito dai nostri figli”. (Proverbio dei nativi americani) di Rosario Lembo Il secondo decennio del XXI secolo si sta caratterizzando sempre di più come il decennio dello scontro frontale tra Uomo e Madre Terra. Il 21 aprile di quest’anno, a New York, si svolgerà una speciale sessione delle Nazioni Unite che affronterà il tema dei rapporti tra uomo e madre terra. Terra, cibo, acqua, fuoco, cioè energia, sono i beni messi a disposizione dalla natura. Tutto il benessere, la crescita e l’evoluzione della razza umana si deve al rapporto che nel corso della storia l’uomo ha saputo instaurare con questi beni comuni. Questo rapporto armonico sembra che oggi si sia interrotto. La madre terra sembra volersi ribellare ai livelli di sfruttamento o meglio ai trend di sovrapproduzione e di eccessivo consumo che stanno portando alla distruzione di tutte le risorse naturali. La serie di eventi naturali che hanno sconvolto il Giappone, anticipano quali potranno essere i possibili scenari se l’uomo continuerà a violentare l’ambiente e a sfidare Madre Terra. Il processo di sfruttamento delle risorse è passato però dalla sfera economica alle borse finanziarie. Le tendenze in atto sono quelle di gestire la produzione e la commercializzazione di questi beni in termini di speculazione finanziaria e di creazione di nuove bolle speculative.

    Chi distrugge la Madre Terra?

    Nell’aprile dello scorso anno, in un incontro svoltosi a Cochabamba in Bolivia, i popoli indigeni hanno lanciato al mondo una proposta provocatoria. Hanno chiesto ai governi e ai popoli del mondo di abbandonare questo modello di produzione e di consumo, per ristabilire l’armonia con la natura. In più, hanno proposto una progressiva riconversione delle spese militari per dedicare risorse alla difesa della Madre Terra, hanno lanciato un referendum mondiale sull’ambiente insieme all’idea di dar vita – in concomitanza con la prossima giornata della terra che si terrà il 22 aprile 2011 – ad un tribunale di giustizia climatica per sottoporre a giudizio chi distrugge la Madre Terra. Questa provocatoria proposta costituisce un segnale inequivocabile, anche perché lanciata al mondo da una minoranza silenziosa di uomini e donne che hanno un rapporto diretto con la terra. Manifesta come in diverse parti del mondo stia crescendo la consapevolezza che questo modello di sviluppo è giunto al capolinea. Se si vuole evitare di distruggere la terra, è necessario avviare al più presto una nuova fase. Il presidente boliviano Evo Morales, al termine della conferenza di Cancun aveva lanciato una serie di richiami molto significativi: “Il mondo non può proseguire con programmi irrazionali di industrializzazione che sono la causa principale dei processi di distruzione del pianeta e quindi dell’umanità”. “Gli esseri umani non possono vivere senza la Madre Terra, però il pianeta può esistere senza l’essere umano. Per questo i diritti della terra sono ancora più importanti degli stessi diritti umani”. Pensare di risolvere i cambiamenti climatici temporeggiando e rinviando le decisioni, significa non voler prendere atto della realtà. È arrivato il momento in cui la comunità internazionale deve dimostrare di saper prendere decisioni chiare e efficaci. Decisioni che non prendano in considerazione solo azioni economiche e di mercato, come il Green Found, ma valori e necessità più alte e non rinviabili. Abbiamo voluto richiamare questo appello, proveniente da un paese che, seppur con molte contraddizioni, sta cercando di costruire un nuovo rapporto più armonico e rispettoso tra uomo e natura. Proprio il popolo boliviano è stato tra i primi a conoscere le conseguenze nefaste dei processi di privatizzazione dell’acqua. Acqua, cibo ed energia sono le risorse sulle quali la finanza e la speculazione internazionale hanno messo gli occhi per assicurarsene il controllo e la gestione. Si prevede infatti che la domanda di questi beni subirà trend crescenti, a motivo della crescita della popolazione mondiale e quindi dei consumi. Controllare il mercato di questi prodotti significa quindi assicurarsi guadagni e profitti sempre maggiori.

    Il mondo ha sete e la sete è destinata a crescere

    Il pianeta Terra è composto prevalentemente di acqua. Nonostante ciò, pur prelevando solo il 6,7% delle risorse idriche rinnovabili, la popolazione mondiale si trova all’inizio di questo XXI secolo di fronte a un allarme idrico. Ciò è dovuto da un lato alla scarsità di acqua dolce disponibile e, dall’altro, a un trend crescente della domanda di acqua per usi produttivi. La difficoltà di accesso alle risorse idriche per uso umano è determinata sia dalla distribuzione non uniforme della risorsa, sia da altri fattori tra loro concatenati: tra questi, la crescita demografica e della miseria, il basso livello degli investimenti messi a disposizione per accedere a risorse idriche sicure e per salvaguardare l’ambiente. Ma la rarefazione dell’acqua risiede anche in una serie di cause esogene, legate ai modelli di sviluppo e soprattutto alla crescita esponenziale dello sfruttamento della risorsa idrica a fini produttivi. È opportuno ricordare che per oltre 4 miliardi di anni la quantità di acqua dolce del pianeta Terra è rimasta stabile. Solo negli ultimi 200 anni la disponibilità di acqua dolce ha cominciato a diminuire. Una tendenza che è andata aumentando sempre di più nel corso degli ultimi 50 anni. La punta di rottura è stata raggiunta nel 2007, anno in cui si è cominciato a prelevare e consumare più acqua di quanto il ciclo naturale della terra ne possa mettere a disposizione. Questo deficit del bilancio idrico, fra uomo e natura, è destinato ad aumentare nei prossimi 15 anni. Ad accelerarlo e a peggiorare l’impronta idrica purtroppo concorreranno diversi fattori. Sotto la spinta della crescita demografica e per effetto dei cambiamenti climatici, le risorse idriche disponibili pro capite negli ultimi 54 anni si sono ridotte del 50%, da 16.800 m³ a 8.470 m³. Questa tendenza alla riduzione continuerà: si prevede che nel 2025 si arriverà a un dimezzamento della disponibilità, che scenderà a 4.800 m³ pro capite. La domanda di acqua potabile crescerà soprattutto nelle grandi città in funzione dei crescenti livelli di urbanizzazione. Non per nulla la giornata mondiale dell’acqua di quest’anno richiama l’attenzione sul tema “Acqua per le città: come rispondere alle sfide dell’urbanizzazione”.

    Gli usi industriali dell’acqua

    Ma il maggior incremento della domanda di risorse idriche si registrerà nel settore degli usi produttivi e industriali. Il principale fattore responsabile del depauperamento delle risorse idriche, a livello mondiale, è rappresentato dal modello di “agricoltura” che assorbe in media il 70% dell’insieme dei prelievi d’acqua. I prelievi per uso agricolo raggiungono il 90% nei paesi in via di sviluppo, contro un prelievo del 20% per l’industria e un 10% per usi domestici. La responsabilità dell’agricoltura risiede nel modello intensivo di produzione che, sotto la pressione delle imprese multinazionali che controllano l’agrobusiness, punta su colture altamente idrovore. Nella maggior parte dei casi non per produrre cibo ad uso umano ma per produrre mangimi o per la produzione di biocombustibili. Un’agricoltura distruttiva, sempre meno rispettosa dell’ambiente, improntata a promuovere cicli produttivi dominati da un uso massiccio di prodotti chimici e di materiali pesanti (nitrati, piombo, mercurio, arsenico, ecc.) che concorrono ad inquinare le falde, quindi a ridurre la disponibilità di risorse idriche pulite. Un modello produttivo sempre più idrovoro che punta allo sfruttamento delle falde freatiche, man mano che le acque di superficie e le falde meno profonde si inquinano o non sono più disponibili a causa delle opere idrauliche e di sbarramento costruite a monte dei fiumi. Inoltre, la domanda crescente di energia esige l’aumento in termini ormai insostenibili dell’uso e del consumo dell’acqua, soprattutto quella di superficie a questo scopo attraverso la realizzazione di grandi opere infrastrutturali (dighe, sbarramenti, salti, ecc.). Per rispondere all’esaurimento delle energie fossili come carbone e petrolio, si punta a utilizzare l’acqua per produrre energia alternativa, cioè energia idroelettrica attraverso la costruzione di dighe e centrali, o la costruzione di grandi invasi o circuiti di raffreddamento a supporto delle costruzioni di nuove centrali nucleari. Il piano di rilancio della costruzione delle grandi dighe che si diffondono sempre di più soprattutto in Cina, negli Stati Uniti e nell’ex Unione Sovietica, in India, ma anche in Turchia e in altri paesi del Mediterraneo, dimostra la tendenza a sfruttare le risorse idriche disponibili più per usi produttivi (per agricoltura ed energia elettrica) piuttosto che per uso umano. La costruzione delle dighe ha comportato lo spostamento di un gran numero di persone (tra 30 e 60 milioni) e determina danni irreversibili all’ambiente, con effetti climatici e ambientali disastrosi, come le inondazioni che hanno colpito ciclicamente la Cina a partire dal 2000.

    La mercificazione dell’acqua

    L’acqua consegnata nelle mani del mercato e affidata ai processi di globalizzazione guidati dalle grandi imprese multinazionali, si trasforma così da bene comune a merce. Di qui la tendenza di amministratori e cittadini di delegarne la gestione ai privati e al mercato (privatizzazione della gestione). In più, dato che l’acqua diventa una risorsa sempre più scarsa, si propone di farla pagare sempre di più, aumentando le tariffe. Pensando così di ridurre i consumi (acqua come il petrolio). Infine, essendo l’acqua una merce rara, una risorsa che ha assunto un valore economico, si crea il “mercato dell’acqua” (patrimonializzazione). L’accesso all’acqua e il suo utilizzo diventano un servizio industriale legato all’utilità individuale e collettiva. In questo modo, l’acqua pur essendo un bene naturale, si trasforma in una merce che si accumula, si trasporta in battelli, in tubature, si conserva in stock e si vende. L’acqua, bene comune indispensabile per mantenere la vita, viene trasformata dal mercato in un prodotto industriale, la cui gestione viene affidata alle banche e a strumenti finanziari (fondi di investimento) che garantiscono le risorse necessarie per gli investimenti. I fondi che ne derivano vengono a loro volta collocati presso i risparmiatori, i fondi pensione, i fondi sovrani e quant’altro, per garantire remunerazioni superiori a quelle delle obbligazioni emesse dai singoli Stati. Si arriva così al nocciolo della questione. L’attuale modello di globalizzazione capitalistica del mercato si pone come risposta ad una minoranza della famiglia umana che vuole continuare a tutti i costi a mantenere livelli di benessere e di crescita economica, anche a scapito della distruzione della terra e della condanna della maggioranza della famiglia umana alla miseria e all’abbandono. Di qui la mercificazione della vita in un contesto di povertà strutturale crescente. La trasformazione dei diritti in bisogni a cui sopperire attraverso il mercato. La devastazione / predazione delle risorse del pianeta terra. Con un unico comandamento a cui obbedire: tutte le risorse naturali devono essere ridotte a merce, da sfruttare, consumare. Per raggiungere questo scopo si è disposti a tutto, anche alla guerra. Non è un caso che si sia giunti perfino a teorizzare la guerra preventiva per garantire la sicurezza collettiva. Che poi altro non è che il mantenimento dei livelli di benessere da parte di una minoranza sempre più ristretta della famiglia umana. Senza preoccuparsi della malattia mortale che si infligge alla madre terra. Senza nessuna attenzione nei confronti delle future generazioni. “Perché - si chiedeva Woody Allen - dovrei curarmi dei posteri? Loro che cosa hanno fatto per me?”.

    Vale la pena mobilitarsi

    Ci piace concludere questa riflessione sul bene comune acqua, ricordando che nel luglio 2010 l’assemblea delle Nazioni Unite ha approvato una risoluzione proposta dal governo boliviano, che riconosce il diritto all’acqua e impegna i singoli Stati e la comunità internazionale a farsi carico di garantire il diritto all’acqua per tutti. Questo riconoscimento, confermato da una successiva risoluzione del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, che arriva dopo 20 anni di mobilitazione da parte dei movimenti dell’acqua, del Contratto mondiale sull’acqua (www.contrattoacqua.it) e di diversi altri comitati di cittadini, apre nuovi orizzonti. Un futuro legato, però, alla capacità di mobilitazione, e che dipende dal livello di responsabilità che ciascuno di noi sarà capace di assumersi. È necessario mettere in atto in diverse parti del mondo una mobilitazione culturale capace di “rimettere la gestione dell’acqua in mano ai cittadini e alle comunità locali”. Ad essi dovrà essere affidato il compito di essere i garanti della sua conservazione, per trasmetterla alle generazioni future, perché continui a mantenere viva la Madre Terra e tutti gli esseri viventi che la abitano. Perché sia trattata e venerata come bene comune che appartiene a tutte le specie viventi di ieri, di oggi e di domani. Per costruire un mondo che sia abitabile e vivibile per tutti. Qualcuno ha detto che “la soluzione alle disuguaglianze è la democrazia. La soluzione alla crisi dell’acqua è la democrazia ecologica”. Per costruirla dobbiamo partire dai comportamenti di ogni cittadino, di ognuno di noi. Contrastare la mercificazione dell’acqua e sottrarla alle logiche speculative del mercato è possibile. L’importante è cominciare ad agire. ( segreteria@contrattoacqua.it Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo. )

    2. Un referendum, anzi, due

    Il Forum Italiano dei Movimenti per l’acqua nasce nel 2006, come una struttura informale che raggruppa i vari comitati di cittadini nati in diverse città a difesa dell’acqua come bene comune e come diritto umano. L’interesse da parte di cittadini e comitati nei confronti dell’acqua prende il via in Italia nel marzo del 2003, a Firenze, per iniziativa del Comitato italiano per il Contratto Mondiale con la realizzazione del 1° Forum Mondiale Alternativo dei Movimenti per l’acqua. Il primo successo politico raggiunto dal Forum italiano è stato la presentazione di una legge di iniziativa popolare, supportata da oltre 400.000 firme. Nel luglio del 2007 il testo di legge è stato depositato in parlamento. La proposta giace tutt’oggi inevasa presso la Commissione Ambiente senza che nessuna forza politica si sia fatto carico di condividerla. Successivamente è stata lanciata la campagna referendaria di raccolta firme che ha portato alla raccolta di oltre 1 milione e 400.000 firme a sostegno di tre quesiti referendari, depositati nel luglio del 2010. I successivi controlli di conformità e legittimità da parte della Corte Costituzionale hanno portato la Corte a dichiarare ammissibili due dei tre quesiti proposti dal Comitato Promotore nazionale “2SI per l’acqua bene comune” costituitosi nel dicembre del 2010. Vediamo di approfondire i due quesiti referendari e cosa succederà se, come è auspicabile, raggiungeranno il quorum, con la maggioranza dei SI.

    Perché un referendum e perché sostenere i SI

    Come è noto lo strumento del referendum, previsto dalla nostra Costituzione, prevede solo la possibilità di abrogare delle norme, o parti di esse, ma non ha una funzione propositiva. I referendum proposti vogliono eliminare alcuni vincoli, voluti dal legislatore, che impongono la cessione ai privati della gestione dell’acqua. Si creerebbero così i presupposti per promuovere in Italia un nuovo quadro legislativo, che preveda la gestione pubblica dei servizi locali, in particolare dei servizi idrici, gestiti dagli enti locali. L’obiettivo è far tornare pubblici questi servizi che toccano direttamente la vita dei cittadini nei loro diritti fondamentali. Si tratta cioè di restituire agli enti locali, che sono i più prossimi ai cittadini, la sovranità su questi servizi. L’acqua è il primo di questi, in quanto bene comune essenziale alla vita. I principi sottostanti tale modello di gestione pubblica e partecipata, che comporta il coinvolgimento di cittadini e territori, sono cosi sintetizzabili:

    - l’acqua è un bene comune e un diritto umano universale;

    - l’acqua è un bene essenziale alla vita;

    - l’acqua appartiene a tutti;

    - l’acqua non deve essere fonte di profitti;

    - quella dell’acqua è una battaglia di civiltà.

     

    Si tratta di obiettivi innanzitutto culturali che, tuttavia, hanno una forte rilevanza politica. Le modalità di gestione dei servizi pubblici locali previsti dal quadro legislativo vigente in Italia prima dell’entrata in vigore dell’art. 23 del decreto Ronchi, prevedevano la possibilità per gli enti locali (comuni) di scegliere tra affidamento a imprese private tramite la gara, affidamento a società di capitale S.p.A. miste pubblico-private o affidamento diretto a S.p.A. a totale capitale pubblico, cioè a società controllate dagli enti locali (gestione in house). Le tre forme di gestione sono di carattere privatistico. Gli obblighi previsti dall’art. 23 hanno accelerato questa scelta privatistica, eliminando la sopravvivenza delle gestioni dirette tramite società controllate dai comuni e introducendo l’obbligo della riduzione del controllo pubblico nel capitale delle società miste. I comuni, infatti, devono ridurre ad un massimo del 30-40%, il capitale azionario detenuto in queste società. La vera alternativa che i Comitati intendono porre al centro del dibattito politico attraverso la campagna referendaria, è quella tra privatizzazione e ripubblicizzazione del servizio idrico.

    Il primo quesito referendario: fermare la privatizzazione dell’acqua

    Il testo che troveremo nella scheda referendaria recita così: “Volete voi che sia abrogato l’art. 23-bis (Servizi pubblici locali di rilevanza economica) del decreto legge 25 giugno 2008 n. 112 «Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria» convertito, con modificazioni, in legge 6 agosto 2008, n. 133, come modificato dall’art. 30, comma 26 della legge 23 luglio 2009, n. 99 recante «Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia» e dall’art. 15 del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135, recante «Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e per l’esecuzione di sentenze della corte di giustizia della Comunità europee» convertito, con modificazioni, in legge 20 novembre 2009, n. 166?”. L’abrogazione dell’art. 23 bis L. 133/08 e successive modifiche (decreto Ronchi) consentirebbe di impedire la totale e definitiva privatizzazione dell’acqua potabile in Italia. Viene, infatti, eliminato l’obbligo di affidare la gestione del servizio idrico solo attraverso gara di appalto o la cessione ai privati di almeno il 40% del pacchetto azionario detenuto dalle società totalmente pubbliche controllate dagli enti locali. L’obbligo della privatizzazione, oltre che il servizio idrico, tocca anche il trasporto pubblico locale e la gestione dei rifiuti.

    Il secondo quesito referendario: fuori i profitti dall’acqua

    Il testo che troveremo nella scheda referendaria recita così: “Volete voi che sia abrogato il comma 1, dell’art. 154 (Tariffa del servizio idrico integrato) del Decreto Legislativo n. 152 del 3 aprile 2006 «Norme in materia ambientale», limitatamente alla seguente parte: «dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito»?”. L’abrogazione parziale dell’art. 154 del D.lgs 152/06 (Decreto Ambientale) si propone di eliminare dalla tariffa la quota relativa alla remunerazione del capitale investito che assicura al gestore profitti garantiti senza vincoli di reinvestimento. Ciò vuol dire impedire di fare profitti sull’acqua eliminando il “cavallo di Troia” che ha aperto la strada ai privati nella gestione dei servizi idrici.

    Se vincono i SI

    Il successo dei due quesiti referendari, consentirebbe di modificare le norme che nel corso degli ultimi 20 anni hanno determinato lo smantellamento dei modelli di gestione pubblica dei servizi pubblici locali e l’avvio dei processi di privatizzazione nella gestione dei servizi idrici e dei servizi pubblici locali. Nello specifico, abrogando l’art. 23 del decreto Ronchi, decadrebbero quelle norme che hanno imposto il colpo di grazia, sancendo la natura commerciale dei servizi e applicando ai modelli di gestione criteri a tutela della concorrenza e del libero mercato, ancora più rigidi di quelli previsti dalla giurisprudenza europea. A livello immediato, attraverso l’abrogazione dell’art. 23, gli enti locali (comuni) potranno recuperare l’autonomia politica di decisione sui servizi pubblici locali e sull’acqua, e avranno la responsabilità della loro gestione, rispettando, naturalmente, la normativa comunitaria. Ciò avrebbe due effetti immediati: Il primo. Il territorio nazionale è diviso in 92 “ATO” (Ambito territoriale ottimale). Si tratta di assemblee di sindaci che cogestiscono il servizio idrico. Oltre la metà di questi, 64 su 92, non ha ancora proceduto ad alcun affidamento o gestisce il servizio idrico attraverso società a totale capitale pubblico. Composti da città capoluoghi o di grandi dimensioni, i comuni degli ATO vedrebbero decadere l’obbligo di indire le gare entro il 31 dicembre 2011, conservando così la facoltà di continuare a gestire direttamente acqua, rifiuti e trasporti pubblici locali, cioè i tre servizi pubblici locali oggetto dell’art. 23. Il secondo. I comuni che sono azionisti di società miste a cui hanno delegato in precedenza la gestione dell’acqua, vedrebbero decadere l’obbligo di cedere ai privati le loro partecipazioni azionarie, che entro il 2013 dovranno ridursi a non oltre il 30%. Oggi la partecipazione azionaria oscilla tra il 51 e il 70%, cosa che consente a questi comuni-azionisti di esercitare un minimo di controllo sulle politiche di gestione dei servizi locali. Scendendo la quota di partecipazione al 30% gli enti locali verrebbero a trovarsi in minoranza. Questa tipologia interessa la maggioranza dei comuni di importanti regioni come la Toscana (Acquapublica), l’intera Emilia Romagna (Hera) e il Lazio (Acea). Il successo del secondo quesito referendario, determinerebbe l’abrogazione del comma 1 dell’art. 154 e come effetto immediato comporterebbe una riduzione del 7% delle tariffe dell’acqua ma, soprattutto determinerebbe una riduzione dell’interesse da parte delle principali imprese multinazionali a partecipare alle gare di appalto indette da amministratori locali. In questo quadro, infatti, non verrebbe assicurata la possibilità di avere per legge un profitto garantito. La scomparsa della remunerazione minima garantita comporterebbe inoltre la revisione dei piani di investimento. Il successo dei due quesiti sarebbe un segnale in controtendenza con l’orientamento prevalente e ormai dominante nella classe politica italiana, di destra come di sinistra, che considera l’acqua una merce. Il Parlamento dovrà procedere ad approvare, nel più breve tempo possibile, una nuova legge quadro sui servizi pubblici locali e di regolamentazione del Servizio idrico. I Movimenti per l’acqua potranno rilanciare la legge di iniziativa popolare sull’acqua che prevede il riconoscimento dell’acqua come diritto umano e bene comune, il riconoscimento del servizio idrico come un servizio di interesse generale nazionale, la ripubblicizzazione del servizio idrico attraverso la gestione tramite enti di diritto pubblico con la partecipazione di cittadini e lavoratori.

    Se vincono i no o non si raggiunge il quorum

    Il quadro legislativo introdotto dal decreto Ronchi sancirà definitivamente che l’acqua è un servizio di rilevanza economica, cioè una merce. Le modalità ordinarie di gestione saranno affidate a gara e i gestori a cui verranno affidati i servizi pubblici locali per i prossimi 25-30 anni saranno solo Società di capitale ed a fare profitto attraverso un aumento delle tariffe, che attualmente sono le più basse d’Europa. L’acqua sarà consegnata nelle mani di imprese multinazionali in prevalenza europee, interessate a accaparrare il controllo e lo sfruttamento delle risorse idriche nel nostro paese. La legge Ronchi collocherà tutti i servizi pubblici essenziali locali (non solo l’acqua) sul mercato, sottoponendoli alle regole della concorrenza e del profitto. Verranno così espropriati i comuni e lo stesso Stato del controllo diretto delle reti, cioè degli acquedotti che nel corso della storia sono stati realizzati con la fiscalità generale. Tutti gli adempimenti e gli obblighi previsti dal provvedimento resteranno in vigore. I comuni che gestiscono i servizi idrici e i rifiuti - in prevalenza quelli delle regioni Lombardia, Veneto, Friuli, Puglia ecc. - attraverso società a totale controllo pubblico che registrano i migliori parametri di efficienza (tariffe e livelli di perdita tra i più bassi d’Italia) ed efficacia (percentuali più alte di investimenti e controlli sulla qualità dell’acqua) saranno obbligati, se vogliono conservare le concessioni in essere, a trasformare le società in S.p.A. miste, cedendo a privati entro dicembre 2011 almeno il 40% del capitale detenuto. Per quanto riguarda le società miste collocate in Borsa, i comuni azionisti che vogliono mantenere l’affidamento del servizio alle attuali società da loro controllate, avranno l’obbligo di ridurre la quota di capitale pubblico detenuto al 30% entro dicembre 2011 e al 40% entro giugno 2013. Per far comprendere la drammaticità delle conseguenze di questo provvedimento è sufficiente immaginare di applicare gli effetti del provvedimento sul bene casa, cioè sulla proprietà che una famiglia italiana con grandi sacrifici è riuscito ad acquisire. La conseguenze dell’art. 23 sarebbero le seguenti: scioglimento dell’assemblea di condominio; obbligo di affidare la manutenzione della nostra casa a un’impresa privata identificata tramite gara di appalto; conferimento a questa impresa per 30 anni della manutenzione sulla base di un’offerta; obbligo di mettere a disposizione del gestore le risorse finanziarie, tramite banche o istituti finanziari, che concederanno i capitali prendendo in garanzia ipotecaria la nostra casa, le risorse necessarie. Un vero e proprio esproprio.

    3. Due “Sì” convinti all’acqua pubblica

    Il 12 giugno è vicino. In quella data i cittadini del nostro paese saranno chiamati ad esprimersi con il voto sull’abolizione di parti della Legge Ronchi che consegna i servizi pubblici locali, e tra questi il servizio idrico, ai privati e al mercato. Naturalmente i difensori di questa legge negano che essa privatizzi l’acqua e la giustificano affermando che essa tende invece a rendere più efficiente il servizio. L’acqua – dicono – resta pubblica. Solo la sua gestione verrebbe affidata ai privati. Mettono poi in evidenza soprattutto il problema della dispersione dell’acqua, affermando che il pubblico non ha i fondi per poter fare gli investimenti indispensabili per rendere efficiente la rete idrica. Di più, sostengono che questa legge è stata fatta per adeguare la normativa italiana alle direttive europee. Ascoltiamoli.

    Loro dicono no Andrea Ronchi, già ministro delle Politiche Comunitarie

    Con questa legge, si è inteso creare le condizioni per una seria politica industriale, che aprisse le porte del mercato e della concorrenza anche alla gestione dei servizi, presupposto necessario per la ripresa degli investimenti, soprattutto nel settore idrico. Adesso i conservatori, non solo di sinistra, attaccano questo impianto, raccontando la menzogna che vogliamo privatizzare l’acqua. C’è un dato di fondo che interessa tutti: noi dobbiamo spiegare agli italiani che noi non vogliamo far pagare l’acqua. Domando ai referendari: come mai in questi decenni coloro che hanno gestito le infrastrutture non si sono preoccupati che l’Italia è tra i peggiori paesi del mondo occidentale per la massima dispersione – pari al 38% - di un bene pubblico come l’acqua? Questo 38% disperso costa alla collettività due miliardi e mezzo l’anno. Come mai non ci sono state date risposte, quando per esempio in Germania il 4-6% di dispersione diventa uno scandalo nazionale? Perché da noi nessuno si interroga sui motivi, sulle responsabilità di questa alta percentuale di dispersione del bene pubblico? Per capirci, per ogni litro d’acqua che arriva in casa, nell’acquedotto ne passano tre! Sapete quanto costa per mettere a norma tutto il sistema infrastrutturale e gli acquedotti? Ci servono più di 60 miliardi di euro. E chi li paga? O mettiamo nuove tasse, o si fa quello che abbiamo fatto: il privato non deve essere visto come il predatore, che entra nelle case del cittadino perché c’è la depurazione, l’allaccio, la distribuzione, che hanno un costo. Non costa l’acqua che è bene sacrosanto, ma il resto. Se vince il SÌ si ferma l’Italia delle liberalizzazioni, vince l’Italia delle municipalizzazioni, che è tutto meno che efficiente. Noi vogliamo con questa legge delle liberalizzazioni fare una cosa molto semplice: evitare le dispersioni del 38%, bonificare, sanare, renderci più europei. Bisogna adeguarsi all’Europa, sistemare le nostre infrastrutture, avere un servizio migliore, abbassare le tariffe. I servizi pubblici devono essere aperti, liberalizzati. Ci deve essere il controllo dello Stato certo, dobbiamo evitare le manipolazioni. Per questo è fondamentale il discorso dell’authority. Questa battaglia referendaria non è solo una battaglia sulle liberalizzazioni, ma sullo sviluppo dell’Italia. È una battaglia contro il conservatorismo negativo.

    Antonio Iannamorelli, del comitato “AcquaLiberAtutti”

    “La privatizzazione dell’acqua è una grande bufala mediatica. Non esiste nessuna privatizzazione dell’acqua. Il referendum, invece, intende statalizzare il servizio idrico. Se vincessero i SÌ, questo risultato danneggerà i cittadini. Oggi sappiamo che paghiamo l’acqua in base a quanta ne consumiamo. Se invece dovessero vincere i SÌ, si dovrà passare a un’imposta, a una tassa, quindi verrà meno il principio di chi inquina paga o chi più consuma più paga. Pagherebbero tutti uguale come succede per i rifiuti che si pagano in base ai metri quadrati di casa. Al centro del mirino dei referendum c’è il decreto Ronchi. Ma esso è perfettibile. Stiamo attenti: l’altro quesito referendario sull’acqua è pericolosissimo perché blocca la possibilità di avere gli investimenti privati per migliorare la rete. In Italia servono 60 miliardi di euro in 20 anni per rimettere a posto la rete idrica. Questa è anche una grande opportunità per il nostro sistema economico, perché secondo i dati delle associazioni 200 mila persone lavoreranno in questo settore nei prossimi anni. Se passa il secondo quesito sarà lo Stato a doverci mettere questi soldi. E dove li prende, visto che in Italia abbiamo problemi a fare una manovra finanziaria di 20 miliardi di euro? Dobbiamo immettere bot, cct, creando ulteriore debito pubblico per finanziare la spesa ordinaria. Dove prenderemo questi 60 miliardi? Significa che le reti non verranno riparate, l’ambiente verrà danneggiato e si perderanno tanti posti di lavoro e grandi occasioni per far nascere nuove imprese come nel settore edilizio.

    Ma noi diciamo “sì”

    Abbiamo chiesto a Rosario Lembo, presidente del Comitato italiano per il Contratto mondiale dell’acqua e Referente del Comitato Promotore per il Sì ai Referendum per l’Acqua Pubblica di dirci in alcuni punti i motivi che hanno spinto a proporre i referendum, anche rispondendo alle obiezioni del fronte del No.

    Rosario, perché questa fobia del mercato? Non è una posizione ideologica?

    L’acqua non è una merce: è il simbolo della vita. Un bene indispensabile per ogni essere vivente e per la sopravvivenza del Pianeta Terra. Essa ha rappresentato nella storia dell’umanità un bene comune, un patrimonio messo a disposizione dell’uomo dalla natura. Quindi appartiene a tutti: per questo la sua gestione non può essere delegata alle regole del mercato, affidata a principi economici e della competitività. L’acqua non deve essere fonte di profitti. Essendo un bene comune è un diritto anche per coloro che non fossero in grado di pagare le bollette. A tutti, anche ai cosiddetti “incipienti” va assicurata dalla collettività una quantità adeguata di acqua di buona qualità. Proprio per garantire la vita di tutti. Se la sua gestione viene affidata al mercato, l’accesso all’acqua è subordinato solo potere di acquisto di del singolo, essa diviene una merce venduta per fare profitti. Rivendicare il diritto all’acqua è una questione di civiltà.

    L’ex Ministro Ronchi dice che in Italia c’è il 38% di dispersione idrica. Servono dai 40 ai 60 miliardi di euro. Chi paga?

    È vero. Negli ultimi decenni gli investimenti per la manutenzioni delle reti si sono ridotti anziché aumentare. Ma questo fa parte di scelte politiche nazionali, dell’assenza di una cultura limitata dell’acqua come bene anche da parte degli enti locali, ma anche delle pressioni esercitate dalle lobby del cemento che puntano a realizzare nuove opere infrastrutturali. Sono 20 anni che in Italia non si fanno investimenti pubblici per l’ammodernamento della rete idrica. L’Italia non ha una Piano idrico nazionale o un Fondo nazionale a sostegno delle infrastrutture, non ha un’Autorità Nazionale di governo ed a tutela della risorsa, le competenze sono frazionate su più Ministeri e quello dell’Ambiente si occupa solo della tutela delle acqua di superficie e dei mari. Certo, questo è un problema serio da affrontare. Occorre però dire che il fatto che quindici anni di gestioni attraverso S.p.A. non abbiano invertito la tendenza anche rispetto agli investimenti dimostra il fallimento di quei modelli di gestione. Anzi le gestioni che registrano le percentuali più alte di perdita e minor livelli di investimenti sono quelle che vedono la presenza dei privati cioè le Spa miste, in cui i privati detengono dal 40 al 49% dei pacchetti azionari e le Spa società quotate in borsa. Sono le gestioni affidate a società come Acea nel Lazio o a Pubbliaque in Toscana a detenere il record, sia delle percentuali più alte di perdite, sia delle tariffe più alte. Il difetto sta nel modello di gestione improntato solo a criteri economici: “full recovery cost”. Un modello che prevede la trasformazione del servizio idrico da servizio pubblico, cioè di interesse generale legato a principi di sussidiarietà e di solidarietà, in servizio economico, gestito su base industriale, finalizzato alla domanda individuale, in cui chi accede all’acqua deve pagare tutti i costi ivi compresi gli investimenti e la remunerazione del capitale. È questo modello che deve essere messo in discussione. L’applicazione al “bene comune acqua” del principio applicato per l’ambiente, chi inquina paga, che prevede la copertura di tutti i costi del servizio, ivi compreso il profitto, sia garantito tramite le tariffe, innesca il meccanismo perverso per cui gli investimenti si fanno con un ricarico sulle tariffe, ma ipotizzando livelli crescenti di consumo in modo da non far aumentare troppo le tariffe. Più acqua si perde o viene utilizzata, più aumenta il volume di acqua erogato, cioè il fatturato, quindi il profitto. Sulla base di questi presupposti, un privato non ha alcun interesse a ridurre le perdite o attivare politiche di riduzione dei consumi. Inoltre, la tensione alla redditività immediata obbliga le aziende a remunerare gli azionisti. In questo modo gli investimenti per la manutenzione degli impianti o sulla qualità dell’acqua non sono considerati priorità delle politiche di gestione. Inoltre la riduzione delle entrate fiscali dei Comuni, i vincoli imposti dal patto di stabilità hanno ridotto la possibilità di investimenti da parte degli enti locali per la manutenzione degli impianti idrici, e più in generale di tutti i servizi pubblici locali. Questa situazione non cambia con la messa a gara della gestione del servizio idrico, cioè affidandola al mercato e coinvolgimento i privati. Le imprese private non dispongono dei miliardi nè sono disponibili a mettere a disposizione i miliardi necessari per fare gli investimenti senza non scaricare sugli utenti i costi finanziari dei capitali presi in prestito dal mercato e garantirsi percentuali di guadagno.

    I sostenitori del no dicono invece che con la privatizzazione della gestione gli impianti sarebbero resi più efficienti e meno dispendiosi.

    Il modello di privatizzazione imposto dall’art. 23 (decreto Ronchi) prevede che i Comuni che finora hanno gestito il servizio tramite società a totale capitale pubblico, cedano al privato il 40% dei pacchetti azionari che detengono. Cosa faranno i privati? Prenderanno in prestito dei fondi dalle banche o dai mercati finanziari per acquistare le quote, quindi si indebiteranno. Poi, vinta la gara ed ottenuta la concessione del servizio per 30 anni, caricheranno i costi bancari sulle tariffe, che conseguentemente aumenteranno. Saranno i cittadini, i clienti di queste società di gestione a farsi carico anche del costo finanziario del trasferimento al privato. Le tariffe dovranno coprire i costi bancari del finanziamento ottenuto (tassi medi del 3,5%) più quelli del profitto gestionale e del rischio del privato (15-20%), e in più resta l’attuale remunerazione degli azionisti. Di fatto si assisterà ad un aumento delle tariffe almeno del 30% rispetto alle tariffe praticate nelle attuali gestione affidata ad un’azienda pubblica ed inoltre più si ridurranno i consumi più aumenterà il costo a metro cubo erogato. Gli investimenti sugli impianti, cioè sugli acquedotti, restano però a carico dei Comuni in quanto proprietari degli impianti. Se i Comuni non saranno in grado di destinare le risorse incamerate al miglioramento delle reti idriche, le perdite degli impianti resteranno ai medesimi livelli. In una parola, oltre al danno anche la beffa.

    Ma, dicono, occorre mettersi al passo con le direttive europee?

    Nulla di più falso. Lo si evince anche dalle sentenze della Corte Costituzionale ed in particolare quelle che illustrano le motivazioni di accoglimento dei quesiti referendari ( n. 24 e n. 26 del 2011). La normativa comunitaria non impone alcuna scelta predefinita di gestione del servizio idrico. Lascia invece ad ogni Stato membro e alle sue articolazioni la libertà di decidere se scegliere una gestione diretta o se mettere il servizio sul mercato. In Europa, l’Italia è tra i pochi paesi che ha deciso di mettere sul mercato il servizio idrico classificandolo come un servizio di rilevanza economica. È il Parlamento su proposta del Governo che ha introdotto l’obbligo di affidamento tramite gara. Esistono, invece legislazioni nazionali, come quella belga e olandese, che prevedono l’espresso divieto alla privatizzazione della gestione per l’acqua. Ci sono poi esperienze di grandi città - Parigi e altre 30 municipalità francesi - che dopo decenni di privatizzazione, hanno scelto la strada della ripubblicizzazione dell’acqua, riprendendosi la gestione del servizio.

    La legge prevede anche semplificazioni. Ad esempio, l’abolizione degli ATO per ridurre i costi.

    Dal 31 dicembre 2011, verranno infatti soppresse le Autorità di Ambito territoriali, cioè gli organi di governo della gestione dei servizi pubblici sui territori. Un provvedimento apparentemente mottivato dalla riduzione dei costi della politica, e nella scelta fra sopprimere le Province o gli ATO si è scelto di sottrarre la competenza sui servizi pubblici locali, in particolare acqua e rifiuti, ai Comuni per affidarli alle Province che, pur non essendo proprietari degli impianti, assumeranno il governo e quindi il potere di decidere le modalità di gestione dei nostri acquedotti e dei rifiuti. Il paradosso è che questo provvedimento è stato voluto dalla Lega, paladina della salvaguardia della autonomia degli enti locali attraverso il Federalismo.

    Ma, si dice, almeno ci guadagnerà l’efficienza.

    È proprio il contrario. L’esperienza maturata da diverse città e comuni italiani - sono ben 64 su 92 gli AATO che adottano modalità di gestione diretta dei servizi pubblici locali - dimostrano che le gestioni virtuose esistono. Ed è questo il paradosso, proprio nei comuni dove il servizio è assicurato dal pubblico, città importanti come Milano, o Verona, i 186 comuni della provincia di Milano che hanno una gestione consortile, hanno fatto registrare “range” elevati di efficacia, efficienza, economicità. Si caratterizzano infatti per tassi di perdita compresi tra il 10-15%, incremento negli anni degli investimenti, le tariffe fra le più basse d’Italia inferiori a 1 euro a metro cubo. Anche l’Acquedotto pugliese controllato dalla Regione, che per decenni ha registrato perdite superiori al 47%, nel corso degli ultimi anni ha ridotto le perdite al 35%, ed ha investito 200 milioni nel 2010 contro i 20 milioni del 2005. Esistono quindi modalità di gestione pubblica, le gestioni in house, capaci di dare risposte efficienti e di garantire gli investimenti necessari. Ma questi gioiellini saranno regalati al privati che quando li avrà sfruttati, come è avvenuto per le autostrade, per la telefonia, li restituirà al pubblico.

    Tra coloro che sostengono il No ma anche da parte di chi vede con favore il referendum, alcuni sottolineano il vero nodo è legato all’assenza di un’Autorità nazionale indipendente di controllo.

    La proposta di un’Autorità Nazionale di controllo, come strumento di governance e tutela dei cittadini, è una falsa soluzione. Perchè l’Authority è uno strumento di regolazione del libero mercato, e quindi vuol dire che si considera di fatto l’acqua una merce. L’autorità funziona se lo Stato si è data una chiara legislazione che definisca con chiarezza le modalità di calcolo delle tariffe e una Carta nazionale della qualità e di garanzia dei servizi e delle sanzioni. Occorre prendere atto che non esiste una legge-quadro organica sul servizio idrico, un Ministero di competenza, e che anche in Inghilterra - dove l’Authority ha poteri molti forti di sanzioni del privato a cui è stata affidata la gestione, a tutela dei consumatori e di fissazione della tariffa - è emerso che le società private non hanno fornito informazioni corrette a livello di costi e di bilanci, e quindi dei parametri sui quali l’Authority ha fissato le tariffe. I presupposti su cui si fonda la Campagna referendaria sono quelli che l’acqua non è una merce, quindi non è un soggetto come l’Authority Nazionale il più appropriato a garantire il governo della risorsa con regole definite su parametri nazionali. La vera governance deve essere attuata a livello dei territori, cioè dei bacini idrografici, attraverso nuovi strumenti di partecipazione e di controllo all’interno del soggetto gestore. Se gli enti locali attraverso forme di gestione diretta o associata (consorzi di più comuni) assumono la gestione del servizio idrico, è all’interno di queste strutture che devono essere attivati nuove forme di governance che coinvolgano i cittadini e tutti i soggetti che utilizzano le risorse di quel bacino idrico (consiglio dei cittadini).

    Le municipalizzate non rischiano di essere fonte di corruzione e di clientelismo? Se non altro il mercato risponde ai cittadini-utenti.

    È vero. Spesso le aziende municipalizzate vengono utilizzate dagli amministratori o dai partiti, per ricollocare quadri politici o per assunzioni clientelari. Recenti fatti di cronaca lo confermano. Però l’assenza di una cultura pubblica di servizio al ben comune è una responsabilità dell’attuale classe politica, di destra come di sinistra. Ma non esiste di per sé nessuna correlazione tra gestione pubblica e corruzione. Anche nelle gestioni affidate ai privati possono prevalere comportamenti di inefficienza e corruzione. Cominciando dalla trasparenza delle gare di appalto e dalle clausole contenute nelle convenzioni di affidamento, alle modalità di assunzione per concorso o chiamata. Nel caso di una gestione non efficiente del servizio da parte di società a totale controllo pubblico, i cittadini hanno la possibilità di chiedere le dimissioni del Sindaco o del consiglio comunale. In ogni caso, ogni cinque anno ci sono le elezioni. Se la gestione è affidata ad una Società mista (PPP) o ad un privato è conferita con un gara per 30 anni , i singoli cittadini, anche se diventassero azionisti, non hanno nessuna possibilità di cambiare le cose. Al massimo possono presentare un ricorso tramite un “call-center”, senza però ottenere soddisfazioni e quindi essere rimborsati per i disguidi subiti. Sotto un consiglio comunale si può manifestare. Più difficile è manifestare in un’assemblea di azionisti. Per ridurre i costi e la commistione della politica a livello di occupazione delle poltrone delle società municipalizzate è sufficiente eliminare per legge i compensi o fissarne tetti massimi, o ridurre la composizione dei consigli. L’adozione di una politica di minor ingerenza dei partiti nella gestione dell’Acquedotto Pugliese, adottata dal Governatore della regione, ha portato anche al dimezzamento dei dirigenti ed alla riduzione del 15% del personale. Ciò dimostra che gestioni improntate all’efficienza si possono fare anche attraverso aziende pubbliche, se la politica accetta di fare un passo indietro.

    Il ministro della funzione pubblica, Brunetta sostiene che ci sono due rischi: il clientelismo delle municipalizzate e la mancanza di risorse per gli investimenti per le infrastrutture legate all’acqua.

    Il rischio del clientelismo per le assunzioni è reale, ma è dovuto alla natura dei soggetti gestori dei servizi pubblici, cioè alle Spa che sono società di capitale regolamentate dal codice civile. Se le società di gestione fossero Enti di diritto pubblico tutte le assunzioni dovrebbero avvenire per concorso pubblico e non con modalità di assunzione diretta. Il rischio della mancanza di investimenti per le infrastrutture è reale. Dimostra però che la cessione ai privati della gestione dell’acqua non è un vantaggio né per il Paese-Italia, perché si svende un patrimonio naturale, né per i singoli cittadini. Se i mercati finanziari ed i vari Fondi di investimento sono interessati ad investire in Italia sui servizi idrici per migliorare l’efficienza della gestione, lo potrebbero fare anche dopo il successo referendario, che avrebbe il solo risultato di reintrodurre in Italia le modalità previste dal diritto comunitario. Se non lo faranno è solo perché non si sentono sicuri di poter fare guadagni in funzione dell’incremento delle tariffe idriche.

    Quali sono le possibili conseguenze della privatizzazione?

    Un rapporto di valutazione sull’impatto del modello di gestione Pubblico-Privato (PPPs), realizzato nel 2008 dal Centro di Ricerca Internazionale, ha così sintetizzato le principali conseguenze in Europa ed in altri continenti: aumento delle tariffe. Sono aumentate a partire dal 1999 del 13% in Francia. In Toscana (imprese miste) le tariffe sono le più alte d’Italia, a Viterbo dal 2008 sono aumentate del +54%, a Latina sono aumentate del 200%. Le politiche di gestione sono finalizzate alla massimizzazione del profitto a discapito della sostenibilità ambientale. Si indebolisce fortemente il controllo politico sulle tariffe e sulla gestione. Inevitabilmente alla fine delle concessioni restano infrastrutture obsolete perché il privato si limita alla manutenzione ordinaria minima. C’è la riduzione degli investimenti e dei controlli sulla qualità del servizio idrico e minor trasparenza verso i cittadini/utenti. Con le gestioni privatistiche, negli ultimi dieci anni, le tariffe sono aumentate di circa il 60%. Sono stati fortemente ridotti gli investimenti (-66%), mentre i consumi d’acqua sono cresciuti. In più, per reperire risorse per gli investimenti, il privato punta a far crescere i consumi e l’obiettivo è quello del 15% in più nei prossimi 20 anni. Una vera e propria pazzia, quando occorrerebbe ridurre i consumi.

    Si dice che il problema non sta nella proprietà dell’acqua, bensì in una gestione efficiente a prescindere dalla natura pubblicistica o privatistica del servizio.

    Anche questa è un’affermazione ideologica, purtroppo condivisa dai partiti di entrambi gli schieramenti, e non solo dal fronte del No. Il servizio idrico è un monopolio naturale. L’acqua è solo H2O.In un territorio passa un unico acquedotto, per cui non è possibile creare un mercato dei servizi idrici nè creare la concorrenza. Di conseguenza, la gestione è necessariamente monopolistica, ovvero può essere solo un monopolio pubblico o privato. La gara, lungi dall’aprire alla concorrenza, serve solo a determinare chi sarà il futuro monopolista privato, che, in quanto tale, potrà dettare tutte le condizioni di erogazione e costo del servizio. La proprietà dell’acqua è pubblica, è statale in base a convenzioni internazionali. Le reti idriche sono di proprietà pubblica perché costruite con investimenti pubblici, cioè con la fiscalità generale. Cedendo a privati la gestione delle reti, i Comuni ne restano i proprietari solo virtuali. Inoltre essendo azionisti di minoranza nelle società miste (al massimo detenzione di quote del 30-40%), gli enti locali non potranno esercitare alcun potere di condizionamento nelle scelte politiche del privato. Gli obblighi previsti dall’art. 23 determinano di fatto la svendita del bene pubblico acqua ai privati. Le risorse idriche disponibili sui nostri territori saranno affidate ad imprese private che le sfrutteranno per fare profitto. E se le fonti o le falde si esauriranno, abbandoneranno la gestione lasciando le comunità locali senza acqua. È quanto è successo in India dove le multinazionali, dopo aver prosciugato i pozzi, hanno abbandonato al loro destino le popolazioni di alcune regioni.

    Allora il servizio idrico, se vincono i Sì, sarà statalizzato?

    Il successo abbinato dei due quesiti referendari non determinerà nessuna statalizzazione. Tanto meno l’imposizione di un modello unico. A livello immediato il successo del quesito referendario determinerà solo la decadenza degli obblighi previsti dall’art. 23 e cioè: l’affidamento ai privati, attraverso gara di appalto o a società miste pubblico-privato della gestione del servizio idrico. E ciò entro il 31 dicembre 2011; decadranno inoltre alcuni vincoli restrittivi, non previsti dalla giurisprudenza europea, per le gestioni in house, soprattutto l’obbligo della cessione del 40% delle quote detenute dagli Enti locali. I Comuni recuperano l’autonomia di scelta in tema di modalità di affidamento dei servizi pubblici locali (rifiuti, trasporti) e quindi sull’acqua. Possono quindi assumersi la responsabilità della gestione pubblica richiamandosi alla normativa comunitaria che prevede le modalità di affidam ento tramite gara, impresa mista pubblico-privato, in house o gestione diretta. Il successo del secondo quesito referendario, abrogando la remunerazione del capitale, determinerebbe l’effetto di ridurre le tariffe che caleranno almeno del 7%. Soprattutto si determinerebbe una caduta di interesse da parte delle grandi imprese private a partecipare alle gare di gestione dei servizi pubblici locali. Come già anticipato il successo dei due quesiti referendari avrebbe il grande effetto di rilanciare il dibattito ed il confronto politico rispetto al futuro dell’acqua, e il Parlamento sarà chiamato ad approvare una nuova legge sui servizi pubblici locali ed in particolare sull’acqua. Sarà interessante capire le posizioni che le forze politiche, a partire da quelle di centro e di sinistra, assumeranno sia rispetto ai i servizi idrici locali, sia sul nucleare.

    Oggi sappiamo che paghiamo l’acqua in base a quanta ne consumiamo. Se vincono i SÌ, si dovrà passare a un’imposta, a nuove tasse?

    Questa è un’affermazione del fronte del NO. Ma si tratta di una affermazione falsa. In più la questione non è posta in modo corretto. È vero. Oggi si paga in base al consumo ma chi più consuma meno paga. Infatti, per coprire i costi, la redazione dei piani di investimento viene impostata prevedendo trend crescenti di consumi di acqua. Conseguentemente il metodo nazionale di calcolo e le tariffe sono costruite su fasce di consumo che privilegiano chi consuma di più. I successi dei due quesiti referendari non determinano l’abrogazione del metodo tariffario previsto dal decreto ambientale. Renderanno però necessaria una nuova legge. La proposta di legge depositata in Parlamento dal Forum italiano dei Movimenti nel 2007 prevede infatti un sistema tariffario che affida alla fiscalità generale la presa in carico del costo del diritto all’acqua. Cioè l’erogazione gratuita dei primi 30-50 litri per persona. Per il resto si propone un sistema con tariffe progressive, differenziate per fasce di consumo, composizione dei nuclei ed uso del bene acqua. Chi più consuma o spreca acqua pagherà una tariffa più alta. I più spreconi e i più ricchi pagheranno di più. Con lo scopo di ridurre i consumi e consentire maggiori ricavi a fronte di maggiori consumi. Destinando questi ricavi alla copertura dei costi del diritto all’acqua. La proposta prevede inoltre che gli investimenti siano finanziati attraverso la fiscalità generale, cioè con fondi pubblici nazionali o regionali, o finanziamenti agevolati a sostegno della manutenzione e degli investimenti infrastrutturali necessari per l’ammodernamento della rete. Per reperire questi investimenti, si propone un nuovo intervento della finanza pubblica e della fiscalità generale, combinato con una rimodulazione tariffaria. Ciò consentirebbe di contenere i livelli delle tariffe sociali, di non introdurre nuove tasse, ma di far pagare di più chi consuma di più. Nel contempo eliminando la remunerazione del capitale, si possono abbassare le tariffe.

     

    4. Vademecum - Cosa puoi fare: azioni, siti e materiali per la campagna referendaria


    Azioni

    A livello individuale blocca sulla tua agenda la data della consultazione referendaria che con molta probabilità sarà quella del 12 giugno 2011; diventa un sostenitore della Campagna, contatta il referente del “Comitato Referendum per i 2 SI” della tua città e collabora per organizzare eventi informativi sui referendum; stampa e riproduci il volantino con i Quesiti referendari e mettine una copia nella casella postale del tuo condominio (la maggior parte dei cittadini non è ancora a conoscenza che entro il 15 giugno si voterà per i referendum sull’acqua e sul nucleare); impegnati a contattare ogni giorno 1 amico o un’amica, per convincerla ad andare a votare e a sostenere con 2 SI i referendum a difesa dell’acqua. Per salvare l’acqua è necessario che almeno 25 milioni di italiani si rechino alle urne; se sei uno dei 1,4 milioni di italiani che hanno sostenuto con la propria firma i referendum sull’acqua, impegnati a far partecipare al voto almeno 25 persone, solo così si raggiungerà il quorum; indossa la spillette, disponibili presso i comitati territoriali, che reclamizzano i Referendum sull’acqua; fai conoscere tramite la tua pagina face book al maggior numero di amici l’appuntamento referendario; informa la tua famiglia non solo per i referendum, ma anche su come risparmiare l’acqua; sostieni con una sottoscrizione la campagna referendaria e il “comitato promotore Referendum per i 2 SI”: è possibile farlo direttamente on-line sul sito della campagna referendaria www.referendumacqua.it. a livello associativo stampa dal sito www.referendumacqua.it i materiali informativi, riproduci alcune copie e falle circolare fra i tuoi associati; organizza eventi di sensibilizzazione con gli associati sui quesiti referendari; segnala nella newsletter della tua associazione l’appuntamento referendario e presenta i quesiti sui referendum; inserisci il banner o il fly di presentazione della campagna referendaria sul sito della tua associazione o su ogni messaggio di posta che invii, ci aiuterai a raggiungere il quorum; organizza un evento pubblico con il kit, la brochure, il manifesto, gli adesivi; sostieni con un contributo la campagna referendaria: è possibile farlo direttamente on line sul sito della campagna; iscriviti alla newsletter della campagna: sarai cosi aggiornato tempestivamente sulle iniziative organizzate dal Comitato promotore. fai aderire la tua associazione al comitato referendario regionale/provinciale, contattando il referente territoriale più vicino a casa tua (recapiti, provincia per provincia).

    Siti

    www.referendumacqua.it troverai il kit per approfondire gli argomenti dei referendum dell’acqua, brochures, manifesti

    www.contrattoacqua.it

    www.cipsi.it

    www.acquabenecomune.org

    Studi e ricerche

    Blue Book 2010 (sintesi). Anea (Associazione nazionale autorità e enti di ambito) in collaborazione con Utilitatis. I servizi idrici a quindici anni dalla riforma. Rapporto ANEA (Associazione nazionale autorità e enti di ambito). Luglio 2009. Il Servizio Idrico Integrato- Indagine a cura dell’Osservatorio Prezzi e Tariffe di Cittadinanzattiva. Settembre 2009. Rapporto sullo stato dei servizi idrici – COVIRI (Comitato per la Vigilanza sull’uso delle risorse idriche). Luglio 2010.

    Libri

    Acqua bene comune dell’umanità, A.V., www.cipsi.it e www.contrattoacqua.it L’acqua è di tutti, Maurizio Montalto; L’Ancora Edizioni, 2010. Prefazione di Alex Zanotelli. Salvare l’Acqua. Contro la privatizzazione dell’acqua in Italia, Emilio Molinari, Claudio Jampaglia; Feltrinelli Edizioni, 2010. L’acqua è una merce. Perché è giusto e possibile arginare la privatizzazione, Luca Martinelli; Altreconomia Edizioni, 2010. La Rivoluzione dell’Acqua. La Bolivia che ha cambiato il mondo , a cura dell’Associazione Yaku; Ed. Carta, 2009. Ancora con l’acqua alla gola. La privatizzazione dei servizi idrici, Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua, Attac Italia ; Quaderni del Granello di sabbia n. 06, 2007. Il mercante d’acqua, Francesco Gesualdi; Feltrinelli Editore, 2007. Acqua S.p.A. Dall’oro nero all’oro blu, Giuseppe Altamore; Oscar Mondatori, 2006. Qualcuno vuol darcela a bere. Acqua minerale, uno scandalo sommerso, Giuseppe Altamore Fratelli Frilli Editori, 2005. Le guerre dell’acqua, Vandana Shiva; Feltrinelli Editore, 2003. Il Manifesto dell’acqua. Il diritto alla vita per tutti, Riccardo Petrella; Edizioni Gruppo Abele, 2001. Fatti d’acqua , R. Lembo, Contratto Mondiale per l’Acqua, Cipsi, Cevi. L’Italia che fa acqua, Riccardo Petrella e Rosario Lembo; Edizione Intra-Moenia.

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