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    L'economia solidale nelle elezioni europee

    Il commercio equo e solidale è una realtà che da 50'anni pratica nel mondo un'alternativa di processo e di prodotto È euromediterranea l'alleanza di un nuovo mercato comune contro il neoliberismo che oggi opprime l'Europa
    3 dicembre 2013 - Giorgio Dal Fiume (Presidente World Fair TradeOrganisation-Europa )

    Il commercio equo e solidale è una realtà che da 50'anni pratica nel mondo un'alternativa di processo e di prodotto È euromediterranea l'alleanza di un nuovo mercato comune contro il neoliberismo che oggi opprime l'Europa

    Tra poche settimane ci sveglieremo e sarà la vigilia delle prossime elezioni per il parlamento dell'Unione europea (maggio 2014). E mentre tutti i giorni questa istituzione viene citata come riferimento imprescindibile per le scelte strategiche delle singole nazioni - per giustificare qualsiasi scelta economica o sociale, o per addebitarle le cause della crisi - già sappiamo che soprattutto in Italia ci si avvierà verso il rinnovo del parlamento europeo senza analisi approfondite, e quindi ripetendo ciò che la grande maggioranza dei partiti propone per le elezioni: volti e nomi da ricordare per il voto, programmi da dimenticare il giorno dopo. Penso che questo sia il contesto da cui muove la riflessione di Alfonso Gianni e Tonino Perna ( il manifesto , 8-11). Che ha certo il merito di muovere la discussione e fare una proposta ardita ma allo stesso tempo chiara: costruire un'alleanza EuroMediterranea che, prendendo a riferimento i percorsi già esistenti in alcuni stati (in particolare quello della greca Syriza) si candidi alle elezioni europee del 2014. Stimolato da ciò e parlando a puro titolo personale, parto - per connettermi a questa proposta - da un contesto apparentemente lontano: il Commercio Equo e Solidale, e le esperienze di economia solidale che per lavoro ed impegno frequento da tempo. Un settore che - avendo cominciato a soffrire per il calo dei consumi causato dalla crisi - a tutti i livelli si interroga sul rischio di perdere capacità di impatto e di aggregazione. E quel ruolo di avanguardia sociale che ha giocato negli anni passati, laddove ha saputo presentarsi come sistema alternativo al modello economico dominante, proponendosi come esempio concreto dello slogan "un altro mondo è possibile", che fino a 10 anni fa aveva unito e rappresentato una vasta rete mondiale di organizzazioni. Sono convinto che per il Commercio Equo la capacità di mantenere quel ruolo, a mio avviso determinante nel dare sostenibilità al proprio progetto ed ai propri obiettivi, passi dal mantenere attiva e vivace la propria implicita capacità di critica e di proposta nei confronti dell'attualità economica, e della politica che la produce ("implicita" in quanto il commercio equo non fa e non deve fare politica, e deve sapersi rivolgere a tutti i potenziali consumatori). Ciò significa enfatizzare e dare adeguata visibilità alla critica all'economia tradizionale ed al modello neoliberista attuale, dei quali le esperienze di "economia alternativa", al cui interno il Commercio Equo si colloca, sono spontaneamente portatrici. Detto in altri termini: cosa abbiamo da dire noi dell'economia solidale rispetto all'origine ed alle conseguenze della crisi in atto, ed a come viene affrontata dal "pensiero unico" delle larghe intese (politiche o mentali, non fa differenza) che ci governano (per quel che gli è concesso dal potere finanziario globale e dalle società internazionali di rating che ne sono espressione)? Cosa e come i nostri criteri e la nostra pratica possono diventare motivi non solo per comprare i nostri prodotti/ servizi, ma anche da tenere presenti quando si tratta di votare e/o di elaborare strategie economiche e commerciali? Come perseguire gli obiettivi di cambiamento economico e sociale che sono pure scritti nei criteri del Fair Trade ? In definitiva: come affrontare il rischio di essere un'oasi in un deserto? E' proprio partendo da queste domande che incrocio il sentiero delineato da Grandi e Perna. E penso all'esperienza acquisita negli anni nei confronti dell'Unione europea: a fronte di una notevole capacità di mantenere relazioni con le rappresentanze dell'associazionismo e della società civile, ed a fronte di una apparente disponibilità a discutere le proprie politiche, in questi ultimi 10 anni ciò che il sottoscritto ha potuto notare, dall'osservatorio del Commercio Equo europeo, è il prevalere di un approccio radicalmente neoliberista che, pur riservando qualche spazio a chi pensa differente, non si smuove dal non «voler turbare l'andamento spontaneo del mercato». Questa è la risposta - ultimativa e non negoziabile, come lo sono i dogmi - ricevuta ai livelli medio/alti cui ogni tanto riusciamo ad accedere, laddove proponiamo modifiche alle politiche commerciali europee, o di dare sostanziale riconoscimento alle forme - oramai diffuse, mature e capaci di generare lavoro ed equità sociale - di economia solidale. Ciò che colpisce è che a rispondere in tal modo sono i rappresentanti della Ue, governo campione mondiale - assieme agli Stati uniti - di turbativa quotidiana del "mercato" attraverso l'imponente politica di sussidi alla produzione agricola ed alle esportazioni. L'ipocrisia rimane tale anche quando è accompagnata dai sorrisi. E invece la pratica dell'economia solidale e del Commercio Equo - portata avanti da cinquant'anni nel mondo da migliaia di aziende, sostenuto da decine di migliaia di volontari, promosso da un vasto pubblico di consumatori complessivamente in crescita - dimostra che il ruolo della politica è proprio quello di turbare i mercati, dato che (come recita la nostra dimenticata Costituzione) l'attività economica «non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», e che perciò essa debba «essere indirizzata e coordinata a fini sociali». Che cosa è il concetto e la pratica del "prezzo minimo" garantito, stabilito sulla base del living wage e fisso, in modo da essere sottratto alle dinamiche perverse delle borse e delle speculazioni? E l'obbligo ad offrire ai produttori il prefinanziamento? Ed il vincolo a relazioni di lungo periodo, evitando di abbandonare automaticamente i produttori a fronte di problemi o di prodotti simili ma che costano meno? E cosa significa il poter comprare/vendere solo laddove viene rispettato un set minimo di criteri sociali, dei quali quelli sopracitati sono solo una parte? E' possibile orientare l'azione economica al massimizzare la distribuzione del reddito su tutta la filiera produttiva, al portare benefici alle comunità locali, all'investire sui percorsi di autonomia e di sviluppo di chi è marginalizzato da un mercato controllato dai poteri forti, all'utilizzare la finanza per promuovere beni comuni, produzione e lavoro, e non per fini speculativi... E' cioè possibile fare economia e commercio - e fornire ottimi prodotti ai consumatori - pur ponendo a chi la fa vincoli e standard finalizzati al promuovere il benessere collettivo e la sostenibilità ambientale, e a limitare l'accumulo di potere e di ricchezza individuale. Sappiamo che qualcuno - ignorando che furono le Nazioni Unite stesse, negli anni '60 a proporre il criterio del prezzo minimo per le materie prime - ci dà dei "bolscevichi". Lo stesso ci dicevano anche alcune grandi transnazionali abituate ad essere loro il mercato, ed a vivere qualsiasi vincolo come attentato alla libertà. Poi molte di loro, forse per presentarsi meglio ai consumatori, si sono avvicinate al Commercio Equo. E a noi vicini sono oggi anche tanti parlamentari europei (pochi gli italiani), che però non sono in grado di influenzare la Commissione che governa l'Unione Europea. Ed eccoci qui: oggi l'Unione europea - lo dimostra l'indifferenza rispetto agli effetti sociali provocati dalla sue politiche di rigore (verso i cittadini, non verso la finanza) - costituisce una delle frontiere principali sulle quali operare per incidere sul modello economico dominante, e sull'esproprio della politica agito (con la collaborazione di politici cechi o compiacenti) dal potere finanziario globale. Per questo il nostro mondo dovrebbe sentirsi coinvolto ed attivato da quei percorsi che si pongono l'obiettivo di incidere sulle politiche europee. Ciò servirebbe anche per evitare il rischio - a volte presente al nostro interno - di chiudersi nella propria autoreferenzialità, o di pensare che l' "apoliticità" (valore da preservare) della nostra attività significhi anche equidistanza rispetto ai contenuti proposti dalla politica. Per questo guardo con interesse al percorso proposto da Gianni e Perna. Rispetto al quale mi permetto di fare due osservazioni: 1) qualunque scelta si faccia, occorre dotarsi di una prospettiva di medio/lungo periodo. E' illusorio pensare che una singola elezione costituisca il punto di svolta; il che significa dotarsi o connettersi ad organizzazioni non dipendenti dal nome/momento contingente e dal puro momento elettorale; 2) occorre una adeguata strategia di alleanze, basata sui contenuti, e su una realistica lettura dei rapporti di forza; l'esperienza italiana ci insegna che raggruppamenti "alternativi" centrati sul nome di un leader, o su una presunta purezza identitaria che enfatizza le differenze, non solo non hanno alcun impatto, ma lasciano vuoto e disillusione: non ripetiamola.

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