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    13 giugno 2007 - Michele Altomeni

    Il Carcere dopo l’indulto: ripensare la pena

    La nostra società, copiando il modello americano, tende sempre di più a risolvere sul piano securitario e giudiziario le crescenti contraddizioni del sistema. Sempre di più le campagne elettorali sono caratterizzate da sparate demagogiche che fanno leva su paure irrazionali. Da parte loro i mezzi di informazione contribuiscono pesantemente a questo clima, trattando il problema in spregio alle più elementari regole del giornalismo: fatti di cronaca nera locale riempiono le pagine dei quotidiani e i servizi dei telegiornali, dando l’impressione di un paese in preda a scorribande di criminali di ogni sorta, in particolare stranieri.
    In questo modo si evita sempre di affrontare il problema in maniera seria, analizzandone la reale portata e le cause.
    In primo luogo quindi occorre prendere atto che non esiste una emergenza securitaria, che i cittadini italiani non vivono sotto una costante minaccia di essere rapinati, aggrediti, stuprati o uccisi. Tuttavia è evidente che da alcuni anni sta crescendo il disagio sociale, si diffondono nuove forme di povertà e di emarginazione, cresce la frammentazione dei legami sociali, e di fronte a questi problemi le istituzioni pubbliche si dimostrano sempre meno capaci di fornire risposte adeguate. Così si sta affermando una cultura che pensa di risolvere il problema nella maniera più semplicistica, la stessa con cui si risolve il problema dei rifiuti, ossia nascondendolo alla vista e alle preoccupazioni collettive.
    In questo contesto il carcere, che avrebbe dovuto svolgere un ruolo di rieducazione e di reinserimento sociale del criminale, svolge invece un ruolo di deposito, di discarica umana. Negli ultimi tempi, la demagogia securitaria di componenti delle politica e dei mezzi di informazione, hanno favorito l’adozione di norme che non hanno fatto altro che ampliare lo spettro dei comportamenti classificati come criminali, compresi alcuni che non danneggiano in alcuni modo i cittadini. Si pensi alla legge Fini – Giovanardi che penalizza anche il consumo di droghe leggere e quindi criminalizza e avvia al carcere persone, in particolari giovani, solo per una loro scelta personale. Oppure alla legge Bossi-Fini sull’immigrazione che in qualche equipara un clandestino ad un criminale. Sono solo due esempi di una tendenza generale molto preoccupante, di una società che invece di prevenire il disagio, lo nasconda e accumula dietro ad un muro.
    Anche per effetto di questa dinamica negli ultimi anni le carceri si sono riempite ben oltre la loro capienza, diventando sempre più disumane, non solo per i detenuti, ma anche per chi ci lavora.
    Uno stato civile riconosce dei diritti anche a chi è stato condannato ad una pena detentiva, proprio perché il carcere non dovrebbe essere uno strumento di vendetta, ma un luogo di rieducazione. In realtà molti diritti dei detenuti non sono rispettati, e quindi viviamo nel paradosso in cui lo Stato viola la legge proprio mentre punisce cittadini perché hanno violato la legge. L’amministrazione penitenziaria, cronicamente in carenza di fondi a causa del sottofinanziamento da parte dei vari governi, risparmia proprio sulle attività trattamentali, ossia quelle che dovrebbero garantire al detenuto il reinserimento sociale, oppure sulle spese necessarie ad offrire condizioni di vita decenti: dimensioni adeguate delle celle, acqua calda per le docce, luoghi decenti per incontrare i familiari… Così il carcere diventa più spesso una scuola di criminalità che un’istituzione educativa, ne è prova l’alta percentuale di recidiva, ossia di detenuti che una volta liberati tornano a commettere crimini, e la riprova è che la recidiva è molto più bassa tra quei detenuti che hanno scontato pene in strutture alternative al carcere, dove si fa molta più attenzione al reinserimento: la recidiva è del 68% per i carcerati e il 19% tra chi ha scontato pene alternative. Questo significa che se l’obiettivo della società è ridurre la criminalità, il carcere rappresenta il sistema meno adeguato. Significa che il sistema penitenziario butta via 300€ al giorno per detenuto senza assolvere alla sua funzione. La repressione carceraria non crea sicurezza, ma serve solo a buttare soldi perché non c’è il coraggio di fare scelte diverse perché di certo non fanno vincere le campagne elettorali. Quegli stessi 300€ potrebbero essere spesi in maniera molto più efficace.

    Per sua natura il carcere è un luogo chiuso e fortemente separato dalla società circostante. Sono queste caratteristiche a renderlo inadeguato allo sviluppo di percorsi di reinserimento, e allo stesso tempo favoriscono dinamiche di violazione dei diritti umani. Per questo è importante utilizzare qualunque canale che permetta di attraversare i muri di cinta. In questo senso svolgono un lavoro molto importante le diverse associazioni che all’interno del carcere svolgono servizi di varia natura ed organizzano attività.
    Come Consigliere Regionale mi è riconosciuto il diritto di entrare nelle carcere delle Marche per visite ed ispezioni. In questi due anni ho cercato di utilizzare questo diritto, anche in coordinamento con le associazioni di volontariato e con quelle organizzazioni, come Antigone, che svolgono una funzione di monitoraggio sulle condizioni di vita in carcere. L’ultimo carcere che ho visitato, alcune settimane fa, è quello di Fossombrone (chi fosse interessato a leggere il resoconto della visita, delle visite precedenti e a reperire altre informazioni sulla tematica, può visitare il sito http://www.altomeni.info).
    In queste ultime settimane sto anche collaborando alla campagna nazionale “Il carcere dopo l’indulto” (info sullo stesso sito). Questa campagna ha due scopi principali: fare controinformazione rispetto alla vicenda dell’indulto e monitorare la situazione delle carceri italiane dopo quel provvedimento.

    Sull’indulto i mezzo di informazione hanno svolto il loro solito ruolo allarmistico e demagogico, facendo passare nell’opinione pubblica il concetto che si stavano mettendo in libertà pericolosi criminali che sarebbero tornati a delinquere aumentando l’insicurezza sociale. Le notizie riguardanti indultati presi a commettere nuovi crimini sono state amplificate in ogni modo a beneficio di un’opinione pubblica già poco convinta del provvedimento. Se invece i mezzi di informazione avessero fatto il loro lavoro secondo la deontologia richiesta avrebbero dovuto prendere atto di un fenomeno insolito: abbiamo detto che il tasso fisiologico di recidiva è del 68%. A sei mesi dall’indulto i dati del ministero della giustizia ci dicono che solo il 12% degli indultati è tornato in carcere per un nuovo reato.
    Rispetto alla rilevazione dei dati la campagna sta verificando che in molti punti il regolamento che fissa gli standard carcerari è inapplicato.

    Presso l’assessorato alle Politiche Sociali della Regione Marche sta lavorando un gruppo di lavoro per la stesura di una legge che punti proprio a potenziare le attività trattamentali nelle carceri marchigiane e che favorisca il reinserimento dei detenuti a fine pena, ad esempio attraverso la formazione professionale.

    Scheda: a sei mesi dall’indulto
    I detenuti prima dell’approvazione dell’indulto erano 61.246 per una capienza regolamentare di circa 43.000 unità.
    I ristretti nelle carceri italiane sono scesi a 38.847 a settembre 2006, sono risaliti oggi a 42.702 (il 35% è rappresentato da stranieri).
    Sono 26.201 (di cui 16.158 italiani e 10.043 stranieri) gli ex detenuti usciti dal carcere negli ultimi nove mesi grazie all’indulto.
    Dall’ultimo screening del Dipartimento dell’ amministrazione penitenziaria (Dap) emerge che 18.189 (pari al 69,4% del totale) sono gli ex detenuti condannati in via definitiva che hanno beneficiato dell’indulto, mentre 8.012 sono coloro che grazie al provvedimento di clemenza hanno avuto una revoca della misura cautelare su decisione del magistrato di sorveglianza.
    Ad oggi si sta registrando un preoccupante aumento della popolazione carceraria.
    Soltanto il 12% degli indultati ha commesso un nuovo reato, contro il 68% fisiologico del tasso di recidiva.

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