barralunga

REES Marche

RSS logo

Calendario

    Beni comuni

    24 giugno 2007 - Enrico Luzzati
    Fonte: Bollettino Rees Marche Anno 2007

    E’ possibile ricostruire una dimensione comunitaria a partire dall’impresa?

    La Storia

    Ciò che il capitalismo ci ha sottratto e che non è in grado di restituirci è la dimensione comunitaria.
    La storia dell’uomo, fino all’avvento del capitalismo, è stata una storia di comunità.
    Si trattava di comunità di persone radicate in realtà locali, e che intrattenevano tra loro rapporti intensi e quotidiani: si sostenevano le une con le altre in una diffusa rete di mutualità (il che non escludeva la frequente esistenza di una rigida stratificazione sociale), si condividevano valori e visione del mondo (anche se per alcune minoranze il diritto alla differenza era generalmente rispettato).
    Esistevano alcune grandi città, dove le persone vivevano in modo più indipendente ed anonimo, ma esse rappresentavano l’eccezione che conferma la regola.
    L’avvento del capitalismo, concomitante con la rivoluzione industriale, ha sconvolto tutto ciò.
    Esso è nato per la spinta della nuova categoria sociale dei capitalisti, che ha rivendicato la libertà di iniziativa economica e si è svincolata dai condizionamenti della vita comunitaria, proponendo una visione del mondo basata sull’individualismo, e sulla dinamicità e la continua trasformazione, anziché sulla conservazione, la staticità, il rispetto timoroso di forze della natura ritenute incontrollabili.
    Prima dell’avvento del capitalismo l’umanità ha sempre vissuto in condizioni che oggi chiameremmo di povertà (tolte le poche eccezioni degli appartenenti a categorie privilegiate).
    A partire dalla fine del ‘700, dapprima in Inghilterra, e poi via via in tutti i paesi che chiamiamo sviluppati, la curva del reddito pro capite ha cominciato ad impennarsi, tanto che oggi in questi paesi si è raggiunto un livello di tenore di vita enormemente superiore a quello del periodo precapitalista.
    Una grande conquista, sicuramente: ma qualcosa è andato perduto, e si tratta del fondamentale valore della comunità.
    L’individualismo e l’economicismo sono stati proposti ed imposti ovunque (con il sostegno degli Stati). Solo la famiglia si è più o meno salvata: per il resto, l’intensità dei rapporti, il sentimento di appartenenza, il sostegno reciproco si sono rarefatti.
    E’ prevalsa l’anomia, lo sradicamento, il non sapere da dove si viene e dove si va, in una società che ancor oggi continua a distruggere legame sociale (e che il noto sociologo Bauman chiama società liquida) .

    Il Presente

    Tuttavia l’uomo non può vivere senza un riferimento sociale: ed in varie forme e modalità, si è assistito e si assiste a tentativi per ricostruire legami e sensi di appartenenza, con riferimento ad un territorio, ad una professione, ad una categoria, ad una religione, ad un partito, ad una nazione.
    E ciò è logico e normale. Solo certi economisti neoclassici immaginano degli individui slegati da ogni contesto sociale, impegnati unicamente a massimizzare la loro utilità in termini di benessere economico.
    Questi individui non esistono, non possono esistere e non sono mai esistiti.
    L’uomo è un animale sociale: l’ha già detto qualche millennio fa Aristotele, e rimane vero. Se non si è parte di una società non si è uomo, si è poco più che un animale. Anche Robinson Crusoè non sarebbe stato quello che è stato se fosse nato nell’isola, anziché arrivarci come naufrago.
    Il riferimento ad un contesto sociale è dunque essenziale per gli uomini, che nascono sociali: basta pensare al linguaggio, una dimostrazione di socialità per eccellenza.
    Ogni persona si pone in una relazione costante con gli altri, ed il sentimento forse più forte in ognuno di noi è quello di essere riconosciuti ed accettati dagli altri. Ognuno ha uno o più gruppi sociali di riferimento: ma il sentirsi in relazione con un gruppo è un’ esigenza fondamentale ed insopprimibile per ogni essere umano.
    Ciò non significa però necessariamente costruzione di comunità. Che gli altri siano importanti per me non vuole ancora dire che io mi preoccupi del loro benessere, che è invece ciò che caratterizza una comunità.
    Il relazionamento con gli altri può essere infatti ricercato per motivi individualistici, in quanto è una soddisfazione per ognuno sentirsi accettato e riconosciuto. Che gli altri mi approvino è importante per me. Ma questo non implica necessariamente che io mi preoccupi del benessere degli altri.
    Ciò che caratterizza invece la comunità è il sentire l’altro come in qualche modo parte di me stesso.
    Il benessere dell’altro è parte del mio benessere.
    A ben vedere qualcuno lo ha già detto: ama il prossimo tuo come te stesso.
    Si costruisce così la dimensione del noi.
    E questo il capitalismo proprio non lo sa e non lo può dare: anzi gli è difficile oggi dare un senso alla sua continua ricerca della crescita economica: l’uomo non vive di solo pane.
    Come esseri mortali non possiamo portare i nostri beni nell’al di là: continuare ad insistere sulla sola produzione di ricchezza non rappresenta una risposta valida ai nostri bisogni più profondi.
    La reinvenzione di una dimensione comunitaria appare un passaggio essenziale ed ineludibile per ridare un significato alla vita dell’uomo.

    L’Impresa Cooperativa come Comunità

    Nella ricerca della costruzione di nuovi tessuti comunitari, alcuni si ispirano ai modelli tradizionali pre-capitalistici. Si può citare il movimento delle “Intentional communities”. Per sfuggire al meccanismo dominante, impegnato in un incessante processo di trasformazione, di innovazione, di crescita, si cerca di ricostruire un sistema di vita più armonico, legato ai ritmi della natura, talora rifiutando la stessa tecnologia moderna (come è il caso del movimento dell’Arca, promosso da Lanza del Vasto).
    Ma isolarsi non è possibile: il cosiddetto progresso riuscirà sempre a raggiungerci, per quanto lottiamo per separarci. Indietro non si torna.
    Il toro a mio avviso va preso per le corna: la dimensione comunitaria va riportata all’interno stesso del momento produttivo. E’ nel cuore stesso del sistema, nell’impresa, che bisogna riuscire a ricostruire comunità, puntando poi per questa via, gradualmente, ad una modificazione dei principi fondanti del sistema capitalista.
    La forma organizzativa che sarà logico adottare sarà quella cooperativa.
    Ma attenzione: ci si può mettere in cooperativa unicamente per soddisfare dei propri individuali interessi economici: e se non si va al di là di questo atteggiamento, si manifesterà il fenomeno del “free riding” (opportunismo)
    Si potrà invece affermare all’interno della cooperativa quel bisogno di essere socialmente riconosciuti cui sopra si accennava: in questo modo si avranno maggiori garanzie relativamente all’impegno, al “committment”, dei membri.
    La cooperativa diverrà però una comunità solo nel momento in cui i soci giungeranno a condividere dei valori e si sentiranno impegnati in una lotta comune. Si accetta la sfida del mercato, per una esigenza di concretezza, perché è la realtà in cui ci troviamo immersi. Ma con l’obiettivo di superarlo, di giungere a sostituire valori di cooperazione a quelli oggi prevalenti di competizione.
    Gli esempi non mancano: i kibbutz israeliani, che hanno in modo originale messo insieme intentional community e cooperativismo comunitario; imprese cooperative, presenti in vari paesi, tra cui l’Italia, che ancora oggi praticano comportamenti che si ispirano ad una filosofia comunitaria, come in primo luogo l’indivisibilità del patrimonio; il Réseau Repas, in Francia.; si può persino citare il caso celebre di un’impresa capitalista, l’Olivetti ai tempi dell’ingegner Adriano.

    Anche per i Paesi del Sud del Mondo.

    Un breve cenno, per concludere, alla tematica dell’impresa comunitaria per i paesi in via di sviluppo.
    I valori e le istituzioni che ancor oggi prevalgono nelle zone povere del mondo non si adattano all’adozione dei valori e delle istituzioni del capitalismo. Assistiamo ad una sorta di rigetto di questo trapianto istituzionale, come, ad esempio, dimostra il crescere smisurato e senza senso delle immense megalopoli dei paesi in via di sviluppo.
    D’altro canto in questi paesi l’esigenza primaria è proprio quella dello sviluppo economico: quando vivi con uno o due dollari al giorno, e sai che a qualche migliaio di chilometri di distanza la gente vive con un reddito 3-400 volte superiore, non stupisce che l’ansia di migliorare la propria situazione economica diventi la preoccupazione prevalente (come peraltro dimostrano i ciclopici processi di emigrazione a cui stiamo assistendo).
    Bisogna dunque porsi il problema di introdurre delle istituzioni appropriate. Appropriate alla cultura di società che sono state definite “degli affetti”, dove le persone sono immerse nelle reti della famiglia allargata, dove gli anziani stanno al centro della vita sociale, dove la terra è considerata madre e non può essere oggetto di commercio, dove la visione del mondo è ancora profondamente religiosa, sia pure di una religione con forti componenti di superstizione.
    Trapiantare in queste realtà (dove peraltro il concetto stesso di Stato stenta ad affermarsi per la debolezza del sentimento di appartenenza nazionale) il sistema capitalistico, che si regge sul binomio mercato-Stato, appare quanto mai problematico.
    Ecco dunque una seconda prospettiva attraverso la quale ricompare il tema dell’ impresa comunitaria. Se un ceto capitalista in questa realtà sociale e culturale stenta ad affermarsi, diverso potrebbe essere il caso di imprenditori che si pongano in continuità con le istituzioni tradizionali, dominate dai valori della comunità e della cooperazione. Delle imprese cooperative comunitarie potrebbero quindi rivelarsi degli efficaci strumenti per la promozione dello sviluppo economico, sia perché una loro affermazione si rivelerebbe meno traumatica per il tessuto sociale tradizionale, sia perché potrebbero rivelarsi capaci di sostenere la sfida della concorrenza del mercato .
    Naturalmente si tratta di un passaggio non facile, non immediato, che deve essere affrontato con l’ indispensabile gradualità.
    Ma il fiorire, da qualche anno a questa parte, in molte zone povere dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina, di un enorme numero di esperienze di imprenditorialità cooperativa e comunitaria ci conforta nel ritenere che questo movimento, se debitamente incoraggiato e sostenuto, possa essere una delle vie più appropriate per il riscatto da un’ inaccettabile situazione di povertà.

    Sito realizzato con PhPeace 2.6.32

    PhPeace è software libero, e ognuno è libero di ridistribuirlo secondo le condizioni dellaLicenza GNU GPL

    A meno di avvisi di particolari (articoli con diritti riservati) il materiale presente in questo sito può essere copiato e ridistribuito, purchè vengano citate le fonti e gli autori. Non si assume alcuna responsabilità per gli articoli e il materiale pubblicato.

    validateXHTMLcclvalidateCSS

    Segnala eventuali errori al WebMaster | RSS logo