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    Beni comuni

    5 settembre 2006 - Gabriele Darpetti
    Fonte: Bollettino Res Marche N°3 Anno 1 - 05 maggio 2005

    Quale futuro per la cooperazione nell'era della globalizzazione

    Il compito di un Organizzazione Sociale, qual‘è il movimento cooperativo, in questo momento è, a mio avviso, quanto mai importante. Viviamo infatti una fase della nostra storia dove le paure, derivanti da un processo di trasformazione economica e sociale, aumentano in maniera illogica e incontrollata e possono essere canalizzate e “cavalcate” per la conquista di un potere sempre più assoluto e incontrollabile. Sono le paure dell’insicurezza sociale che emergono dalla sensazione imprecisa ma diffusa di sentirsi minacciati. E’ il rovescio della medaglia di quello che tutti i giorni gli economisti e i politici liberali definiscono pomposamente come “globalizzazione”. Se essa abbia i conclamati effetti positivi lo vedremo soltanto nel medio periodo e probabilmente non andranno a vantaggio di tutti ma solo pochi eletti. Intanto stiamo già vedendo che essa ha indubbiamente anche effetti negativi, ed uno di questi è già sotto gli occhi di tutti: l’insicurezza.

    Il risvolto negativo della globalizzazione economica è infatti la deterritorializzazione. Questa è un vero e grande motivo della paura della gente. Anche se consciamente le persone non sanno individuarne la ragione, inconsciamente avvertono che questa è una delle cause più importanti della criminalità, perché la deterritorializzazione, richiesta dai processi di globalizzazione, rende il territorio incerto, e non più fiduciario il rapporto tra le stesse. E siccome la globalizzazione concepisce le città come semplici luoghi di scambi, più che come luoghi di abitazione e di radicamento sociale, nasce la percezione diffusa che siamo all’inizio di quel processo irreversibile che traduce le città in agglomerati di sconosciuti senza più quel tessuto sociale che creava quel rapporto tra gli abitanti del territorio i quali, se anche non si conoscevano, sapevano di sottostare a quella legge non scritta che erano gli usi, i costumi, i valori, la cultura e le tradizioni degli abitanti di quella città. Quando l’interesse economico diviene l’unico vincolo di convivenza di città e paesi allora è prevedibile che aumenti in modo spasmodico il timore per l’azione criminale. In questo sospetto si radica la paura e l’insicurezza sociale: non solo quindi timori di azioni delittuose ma anche preoccupazioni di perdere, o di non trovare, un lavoro, timori di malattie gravi che possano far perdere le proprie capacità produttive e quindi il proprio status all’interno della società, ansie di non saper convivere con nuove culture e soprattutto nuove religioni portate dai tanti extracomunitari che arrivano fra noi.

    Secondo questa lettura, che vede nel primato degli interessi economici individuali, nei confronti dei valori espressi da un radicamento territoriale, la vera causa che fa temere il diffondersi della criminalità molto più di quanto non dicano i dati reali, allora è bene sapere e far sapere a quanti invocano l’aumento delle misure repressive, che il territorio non lo si garantisce solo con il controllo delle forze dell’ordine, ma soprattutto rinsaldando quel tessuto sociale, depositario di usi, costumi, tradizioni e valori che rendono fiduciario e non diffidente il rapporto con il prossimo. E allora bisogna lavorare sui processi di immigrazione, per renderli compatibili coi processi di inserimento, e sui processi di emarginazione, da ridurre con le pratiche di recupero. Bisogna anche lavorare sulla scuola, che in termini di educazione soffre molto in questa delicata fase di trasformazione e bisogna curare meglio i programmi televisivi che distribuiscono sui vari canali sempre più violenza, sempre più scandali costruiti per dimostrare il sovvertimento di ogni regola, sempre più violazioni della vita e dei sentimenti privati, sempre più episodi di esasperazione della vita politica, che fra l’altro tendono a massificare e rendere sempre più indistinti valori e prospettive abbracciati ancora da milioni di persone. Diceva opportunamente Eugenio Scalfari in un articolo di qualche anno fa su Repubblica “Il pericolo viene dall’opera distruttiva della globalizzazione, fondata sul denaro che produce denaro senza alcun riferimento al tessuto storico, morale, produttivo che per secoli ha rappresentato la ricchezza del territorio radicando gli individui, i loro interessi, la loro identità ai luoghi, alle patrie, alla nazione. Oggi il valore d’uso è stato di fatto distrutto e l’economia globale sta togliendo di mezzo tutti i punti di riferimento che servirono a dare alle nazioni un carattere e una fisionomia materiale e spirituale.”

    Si può arrestare questa onda negativa e ricostruire comunità e classi dirigenti portatrici di disegni ispirati al bene comune? Pochi ci credono, nessuno ci prova, molti degli stessi critici della civiltà fondata sulla produzione di denaro attraverso denaro pensano che la globalizzazione finanziaria e la desertificazione sociale del territorio contengano anche alcuni aspetti positivi di diffusione del benessere, difesa della salute, accrescimento di creatività e di iniziativa individuale che sarebbe impossibile frenare. Qui può rientrare di nuovo in gioco il modello cooperativo. Il movimento cooperativo non ha forse sempre sostenuto che le cooperative sono il frutto della comunità locale, per essa lavorano e ad essa guardano come costante riferimento nella loro azione quotidiana? Se la cooperazione, praticata e sostenuta in tutte le sue forme, è un antidoto alla de-territorializzazione e quindi alle paure e alla insicurezza della società, allora la responsabilità del movimento cooperativo è grande. E’ un compito al quale esso non può sottrarsi e per la cui realizzazione non può prescindere da una grande azione collettiva, consapevole, costante ed organizzata. Per questo le organizzazioni cooperative devono divenire efficienti, flessibili, unite e tenere sempre al centro del loro divenire i valori che difendono e promuovono. Questo significa però allargare le forme di rappresentanza anche ad altre realtà che – al di là della forma giuridica – abbiano in comune con la cooperazione l’istanza solidaristica nelle attività economiche e sociali e la dimensione democratica, oltre naturalmente al radicamento territoriale: associazioni di vario genere, mutue, fondazioni, circoli culturali, strutture di volontariato, imprese sociali ed etiche. In questa direzione si stanno costruendo, e anche qui nelle Marche, le Reti di economia solidale, alle quali il movimento cooperativo non può non partecipare come soggetto trainante, perché esse esprimono e cercano di realizzare proprio i valori fondanti della cooperazione. Esso deve inoltre compiere uno sforzo collettivo per aumentare la qualità e la presenza del lavoro quotidiano dei propri rappresentanti affinché sia riconosciuto al movimento cooperativo, ad ogni livello pubblico e privato, quel ruolo fondamentale di produzione di un valore aggiunto sociale, e quindi di capacità di interlocuzione in tutte le questioni che riguardano la vita civile. E’ un compito non solo per i dirigenti del movimento cooperativo ma che dovrebbe essere sentito ed assunto anche da ogni singolo socio cooperatore.

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