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    5 marzo 2007 - Rossella Andreazza (dott.ssa)
    Fonte: Bollettino Rees Marche Anno 3 N° 1 - 04 marzo 2007

    Pelle, corpo e sentimento nella “terapia” dell’abbraccio

    Conferenza tenuta durante il Convegno “Le buone coccole”
    in occasione della Giornata Mondiale per l’Infanzia
    organizzata dal comune di Osimo il 25 Novembre 2006

    Quando un bambino nasce, si stacca fisicamente da qualcosa da cui è stato avvolto così strettamente da essere letteralmente PARTE di un altro corpo: quello della madre. Ed è per questo che le madri vivono i figli, per certi aspetti, come una parte (spesso la più importante) del proprio corpo e, per lo stesso motivo, i figli vivono come primario l’APPARTENERE a qualcosa che è più grande e più importante della loro stessa vita.
    Infatti, è proprio l’appartenenza al corpo della madre prima, e poi al cerchio della famiglia che garantiscono la vita del piccolo.
    Questo sentimento di appartenenza è perciò più forte dello stesso istinto di sopravvivenza.
    Già nei primi decenni del ‘900 Spitz, uno psicologo americano, poteva constatare come il 50% dei bambini abbandonati dalla madre e non accuditi individualmente (negli orfanotrofi) si lasciasse morire, per esempio rifiutando il cibo, andando cioè contro l’elementare istinto di vita.
    Troppo spesso noi adulti dimentichiamo che,soprattutto nei bambini il senso di appartenenza al gruppo familiare è un sentimento anche più forte del desiderio di conservare la propria vita.
    Questo sentimento illumina di significato anche molte situazioni che noi definiamo “psicopatologiche”, dove qualcuno - per esempio un bambino, più spesso un adolescente, e molte volte anche un adulto che conserva dentro di sé un’acuta sofferenza di bambino – sembra andare con i suoi atti autodistruttivi, o quantomeno rischiosi, verso la morte. Questa “rabbia” può venire da un vissuto di separazione, dal bisogno frustrato di appartenere e sentirsi dunque “stretto” nell’abbraccio familiare.
    Guardando i bambini non dobbiamo dimenticare che essi guardano ai loro genitori con un amore che è vera e propria adorazione e, nel loro pensiero magico, sono disposti a “sacrificarsi” per “salvarli”.
    Sappiamo che il bambino vive la realtà in modo “egocentrico”, fino a considerarsi “responsabile” di tutto ciò che accade intorno a lui:chiamiamo “pensiero onnipotente” quel sentimento che porta il bambino a prendere nella propria famiglia posizioni e comportamenti di “fedeltà” estrema, da lui vissuti come funzionali alla sopravvivenza della famiglia stessa.
    Dal punto di vista del bambino il bello e il brutto che possono accadere nel nucleo familiare sono facilmente identificabili, da un lato come “sentirsi al sicuro” e dunque “dentro” qualcosa di caldo, protettivo e stabile da un lato, dall’altro sentire invece “In pericolo” ciò che mi nutre e mi protegge, ciò a cui devo la vita.
    I bambini, quanto più sono piccoli, tanto più ricevono le informazioni basilari per la loro esistenza, e comunicano attraverso il corpo.
    Tutti noi siamo stati embrioni dentro il ventre materno, poi neonati, poi per lunghi anni bambini che hanno appreso gli aspetti fondamentali della vita attraverso il corpo e non certo attraverso la parola.
    Nel “sentire”, e dunque nei sentimenti, nella percezione profonda che abbiamo di noi stessi e di ciò di cui facciamo parte, è sempre prioritario il corpo, mille volte più della parola, perché noi abbiamo appreso e avuto quello che era essenziale per la vita attraverso il corpo e non dalle parole.
    Anche sul piano psicologico vale lo stesso principio: ciò che conta, la sensazione di “stare bene” (quando tutto è al suo posto), oppure di “stare male” (di essere fuori posto o che manca qualcosa di essenziale) derivano da un “sentire” del corpo in relazione con le persone significative della nostra vita, che per un bambino sono sempre prima di tutto i genitori, poi i fratelli e poi la famiglia più allargata come per esempio i nonni.

    Se dal corpo provengono informazioni allarmanti, è come quando un neonato sente la pancia vuota e non sente l’odore della mamma sufficientemente vicino. È questo che scatena l’allarme generale e da qui viene anche quella che poi chiamiamo “sofferenza psicologica”,agitazione,ansia,sensazioni di abbandono,solitudine,impossibilità di vivere.
    Un’altra fonte di sensazioni piacevoli o dolorose sono le emozioni prevalenti nella famiglia, che ogni bambino sente fortemente dentro di sé attraverso quelli che vengono chiamati “neuroni specchio”, che riflettono internamente le emozioni percepite all’esterno.Attraverso questo mezzo i bambini sono in sintonia con l’ambiente a cui appartengono,così essi apprendono, imitano e seguono i modelli adulti, molto prima di averne coscienza.
    Questi sono concetti essenziali qui soltanto accennati, che avrebbero bisogno di essere meglio spiegati e soprattutto sperimentati personalmente attraverso un sentire più profondo che ha bisogno di tempo.
    Ma chissà…forse questo sarà il tema di un prossimo “corso” per genitori ed educatori…
    Per il momento restiamo nella consapevolezza che le nostre prime esperienze vitali sono esperienze d’amore che derivano dal nostro legame col sistema che ci ha dato la vita – la famiglia -: sono esperienze corporee e le successive esperienze psichiche nascono da queste prime.
    In questo contesto è importante anche accennare al ruolo che per i bambini ha la casa che fisicamente ci contiene e ci abbraccia con i suoi odori prima di tutto, la sua atmosfera, i luoghi familiari che ci danno sicurezza, perché sappiamo di poterli ritrovare sempre allo stesso posto, e i ritmi che scorrono dentro quelle mura.
    Per i bambini la casa, che è effettivamente una espressione del carattere, dei gusti e del reale rapporto che i genitori hanno con la vita, è un prolungamento del corpo materno e, in quanto tale, comunica e riceve dal bambino dei sentimenti.
    Quando il corpo riceve, anche in modo non cosciente, informazioni che avvertono per esempio di un cambiamento imminente o di una possibile perdita, o della mancanza di qualcosa di essenziale, allora il cervello riceve e rimanda segnali di allarme al corpo e anche, nel caso di bambini non piccolissimi, alla coscienza, e quella situazione viene memorizzata come pericolosa.
    Ma di solito i bambini, anche se inquieti o addirittura ammalati, alla domanda “Come stai?” rispondono sempre “Bene”. Devono diventare adolescenti per avere una chiara coscienza di un malessere psichico.
    Per comprendere come sta psicologicamente un bambino è meglio semplicemente osservarlo nel corpo, nella postura, nel colorito, nell’espressione degli occhi, nel modo in cui affronta per esempio le novità, nella distanza che può tollerare dalla mamma, e nei suoi ritmi biologici: alimentazione, sonno, evacuazione. Sembra una bestialità, ma invece il funzionamento dell’intestino e l’aspetto delle feci dicono molto anche sullo stato d’animo e sui sentimenti profondi del bambino.
    A conferma di ciò, le recenti ricerche sullo sviluppo e il funzionamento del sistema nervoso, che definiscono l’intestino come “secondo cervello”. In realtà per un neonato la pancia è il “primo cervello” perché da lì si originano le sensazioni fondamentali di benessere o viceversa di malessere.
    Tornando al corpo come ricevitore e trasmettitore di segnali e informazioni, riguardo soprattutto ai sentimenti che riguardano i legami d’amore con la famiglia, possiamo dire che la pelle è l’organo di senso più esteso e ricettivo. La pelle ha la stessa origine embrionale del sistema nervoso: quello che la pelle recepisce ed esprime rappresenta la comunicazione essenziale riguardo soprattutto all’essere al sicuro oppure in pericolo.
    Sulla pelle si esprimono quelli che vengono chiamati “conflitti di separazione”, perché appunto il contatto di pelle è originariamente la fonte del sentimento di “sicurezza di appartenere” al corpo materno e dunque di poter restare in vita.
    Nei bambini la pelle non è, come in un adulto, una scorza abbastanza dura per difenderlo dalle possibili aggressioni esterne e per dargli un confine preciso.
    La pelle è all’inizio della vita una separazione molto fragile fra sé e il mondo, ed è invece molto più un organo di comunicazione. Ogni millimetro quadrato di pelle contiene terminazioni nervose che inviano segnali al cervello e dunque il contatto di pelle è fondamentale per rassicurare, tranquillizzare e addirittura “ nutrire” un bambino.
    Certo sono importanti anche il vedere, per esempio la madre, sentire il suo odore, la sua voce, il suo sapore (nell’allattamento), ma l’essere avvolto e abbracciato riporta il bambino e ogni essere umano al suo giardino dell’eden, il tempo della vita intrauterina, dove la protezione e il nutrimento della vita sono in qualche modo garantiti senza sforzo e senza interruzione, attraverso un continuo appartenere ed essere abbracciati.
    Talvolta succede che un bambino faccia un’esperienza prolungata di essere separato dalla madre o più tardi dalla famiglia.
    Questo poteva avvenire in passato per motivi gravi, come malattie o immigrazioni, ma purtroppo avviene oggi sistematicamente proprio nelle prime fasi di vita del bambino: dopo il parto questi viene allontanato dalla madre,talvolta anche per periodi relativamente lunghi quando, per esempio, viene messo in incubatrice.
    Si sa da diversi decenni che i bambini crescono (se sono immaturi) e guariscono più facilmente quando sono tenuti a contatto di pelle con la madre ma questo spesso viene ignorato nelle strutture sanitarie.
    La mia esperienza diretta di terapeuta mi ha fatto incontrare bambini che soffrivano di disturbi cronici, per esempio proprio alla pelle o al sistema nervoso, legati a separazioni precoci dalla madre per motivi “sanitari” nei primi mesi di vita. Non è sempre facile recuperare le conseguenze di questo traumi precoci e bisognerebbe evitare di sottoporvi i bambini se non per questioni di vitale importanza.

    Un consiglio alle madri è quello di essere sempre presenti e a contatto fisico con i figli nel caso di visite o interventi sanitari. Meglio cercare di restare tranquille fisicamente vicine al figlio e comunicargli col proprio corpo che lui si trova in una situazione sicura. Naturalmente questo significa che la madre per prima deve imparare a gestire le proprie paure e far prevalere un senso di protezione verso suo figlio.Quando la mamma non tollera la propria ansia e la controlla solo allontanandosi dal bambino, questi non può che sentirsi solo e abbandonato nel pericolo. Quando un bambino si trova separato da ciò che gli dà sicurezza per un tempo significativamente lungo, dove per così dire “perde la speranza” e si sente “abbandonato a se stesso”, allora la sua reazione può essere quella di chiudersi in sé stesso, anche fisicamente, e poi rifuggire il contatto corporeo privandosi della possibilità di ritrovare quello che aveva perduto e soddisfare di nuovo il suo bisogno essenziale di sicurezza.
    Questa “chiusura interiore” può permanere profondamente per lungo tempo, anche fino alla vita adulta, ed è spesso un serbatoio di rabbia, rancore, insoddisfazione o addirittura distruttività verso gli altri e se stessi,per esempio nella adolescenza.
    Naturalmente ogni caso è diverso e non è mai corretto generalizzare.
    Ma ci sono situazioni in cui il tanto desiderato contatto con l’altro viene vissuto in modo ambivalente e alla fine evitato, aumentando così rabbia e frustrazione. Allora in questo caso si può sperimentare proprio la terapia dell’abbraccio, nell’adeguato contesto terapeutico, dove in qualche modo viene rivissuto il dolore profondo della separazione e della sensazione desolante di abbandono che sta alla radice della rabbia, per poter poi ritrovare la possibilità del contatto d’amore. Qui si può sottolineare ancora come l’appartenere, l’essere avvolto fisicamente,il poter scambiare messaggi fisici attraverso il contatto allargato da pelle a pelle possa confermare il legame d’amore primario fra genitori e figli, riportando armonia in modo diretto e semplice dove sono disagi, frustrazioni ed esperienze difficili (naturalmente quando l’abbraccio può essere dato e accettato senza resistenze).
    A questo scopo con i bambini le parole servono veramente poco, soprattutto se sono in contrasto con quanto il bambino avverte tramite il corpo, i sensi, la pelle.
    I bambini, attraverso i segnali diretti che ricevono e trapassano la sottile pelle che li divide dal modo esterno, “sanno tutto”, sono completamente dentro i nostri sentimenti di genitori. È inutile per esempio cercare d’ingannarli con discorsi rassicuranti, parole del tipo: “non ti devi preoccupare per noi” che sottintendono esattamente l’opposto. Quello che possiamo fare è tornare a dargli sempre, finché lo accettano quel senso di appartenenza, sicurezza e contatto che dà l’abbraccio caldo, prolungato rilassato e goduto. Questo né particolarmente vero quando il bambino vive una difficoltà, anche banalmente fisica,come avere la febbre.Come madre ho potuto diverse volte sperimentare l’effetto benefico che deriva dall’assecondare il desiderio di regressione che i bambini esprimono quando si ammalano, mettendo da parte per qualche ora,o se necessario qualche giorno, impegni e incombenze, semplicemente per essere presenti, senza fare nulla se non avere un contatto fisico prolungato e rassicurante. Questo funziona anche nell’accelerare la guarigione, oltre che per ritrovarsi in ciò che è essenziale, l’amore e la sua espressione, perché da questo il bambino riceve una grande energia, non solo psichica. Ormai è noto che le emozioni modulano,attraverso molecole in movimento nell’organismo, i sistemi nervoso, ormonale e immunitario, e che non c’è, come si è creduto a lungo, separazione fra mente e corpo.
    Allora ci si può concentrare su ciò che è essenziale e sentire internamente la forza e la vitalità che viene dal contatto fisico. Questo è vero a qualsiasi età.
    Se però ad un certo punto i figli adolescenti tendono a rifiutare l’abbraccio, vanno rispettati in questo perché va rispettata la loro ricerca di autonomia, che significa poter trovare sicurezza non solo nei genitori e nella famiglia, ma anche in se stessi e nel mondo che sta oltre la famiglia.
    Questo processo di apertura al mondo avrà tanto più successo quanto più l’abbraccio coi genitori e l’appartenenza al sistema familiare è stato naturalmente assecondato nell’infanzia e interiorizzato nel bambino; potremmo dire: “quanto più ogni cellula del corpo ha memorizzato l’essere in stretta e concreta comunicazione con le persone a cui dobbiamo l’origine e la possibilità della nostra esistenza”.
    Allora da questo sentimento di essere stati nutriti e sostenuti, che è familiare e naturale dentro di noi, prima o poi verrà anche quel sentimento di gratitudine che dà energia, fiducia e forza per affrontare la vita anche nei sui lati meno piacevoli.

    Per contatti con l’autrice

    Rossella Andreazza:

    Studio: Recanati, corso Persiani, 45

    E-mail:

    studioacquadiluce@tiscali.it

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