Seminario Scuola delle Alternative
9-10 Dicembre 2006
“La visione del mondo alla base dell’economia solidale”
9 Dicembre – Enrico Euli
La mattinata con Enrico Euli inizia con un esperimento: i partecipanti sono invitati a fare una traduzione personale dell’espressione “La visione del mondo alla base dell’economia solidale” come recita il titolo del coso stesso, attraverso un’immagine, un disegno.
In pochi minuti vengono realizzati degli schizzi su semplici bigliettini e da essi vengono fuori diverse interpretazioni, ma non così distanti le une dalle altre. I corsisti vengono invitati a distribuirle sulla superficie del pavimento, Sulla base delle affinità e le differenze, le varie visioni vengono distribuite sul pavimento formando delle macroaree.
Il dinosauro
È metafora di una visione pessimista della realtà in cui l’economia solidale appare quasi anacronistica; si uniscono elitarismo e criticismo a rendere il quadro un po’ più fosco.
Il dono
Metafora della gratuità e di uno scambio che non sia quello economico, al contrario fatto in nome del guadagno e dell’interesse egoistico.
Il primitivo
In questa area si trovano gli elementi naturali insieme ad ampi orizzonti, che riportano un bisogno di naturalità, di puntare all’essenziale; comunque, un cambiamento di punto di vista.
Il bucolico
Le immagini di uomini e comunità a contatto con la natura, al lavoro collettivo nei campi (un po’ tipo hippies!), riportano il bisogno di vivere a contatto con la natura in maniera quotidiana. Il bisogno di dimensioni e ritmi umani, porta ad una idealizzazione della vita di campagna, del rapporto con la natura.
Il legame
Protagoniste di quest’area sono le relazioni, fili invisibili eppure forti e pieni di senso, tra le persone, rappresentate da volti e mani.
Euli passa in rassegna le visioni, mettendone in evidenza caratteristiche ed implicazioni. Ridicolizzando e sdrammatizzando, così da rompere la visuale sostanzialmente omogenea che accomuna i corsisti, è stata portata alla luce la comune tendenza alla cosiddetta circolarità rassicurante. Prendendo spunto dal disegno di un cerchio e comparandolo con la figura dell’ellisse (più asimmetrica e meno regolare), si è presa nota di come il gruppo usi simboli che rimandano alla regolarità, alla chiusura: orizzonte definito, cerchio, quadrato, nido, “hortus conclusus”. Tutte immagini di grande ordine, costruzioni e strutture proporzionate che denotano il grande bisogno di stabilità e rassicurazione. Questa proposta di una lettura diversa delle affermazioni fatte, ha spaesato non poco i presenti. Alcuni hanno cercato di argomentare diversamente da quanto messo in luce da Euli e tale reazione è stata letta come un tentativo di difesa di fronte al portare all’evidenza elementi inconsci.
I modelli dell’azione
Quanto emerso dal gioco delle rappresentazioni - ossia l’implicito ed inconsapevole bisogno di controllo e sicurezza - viene analizzato alla luce di diversi modelli di pratica (intesa come modo del pensiero e del comportamento), collegati al concetto chiave della pace. Pace come realizzazione, equilibrio e pienezza, meta comune alle diverse attività umane, declinabile in diversi significati. Proprio in virtù di questo suo senso lato, si può dire che l’economia solidale stessa tenda, predichi e metta in pratica quello che è un modo di essere sia dell’individuo che della società. I disegni stessi ne testimoniano il desiderio. Dietro la visione della pace, però, si può nascondere un grave pericolo. In molte delle buone pratiche, delle visioni alternative all’attuale stato di cose, si rischia di incappare nell’errore (come è successo per il variegato mondo della nonviolenza): procedendo all’illustrazione del modello nonviolento e di quello violento del concetto di pace, si è messo in evidenza come la visione della “pace come quiete” e assenza di conflitto, costituisca il motore primo della negazione della pace stessa, ossia la guerra.
Figura 1 Modello violento della Pace
Nella “pace come quiete”, perfezione statica ed immutabile, il conflitto non può essere altro che disturbo, pericolo per l’ordine stabilito. Eppure, il conflitto costituisce il naturale e spontaneo avvicendarsi di fasi ed elementi diversi e propri della vita nella sua complessità; in quanto tale, esso è fonte di ricchezza e di crescita. Invece, all’interno di questo modello, il conflitto viene visto come la causa del male, portatore di disordine: è il nemico da combattere. Finché esso viene vissuto in tale maniera, esso non può non causare la guerra. Questa affermazione è centrale: l’immagine della pace come raggiungimento della perfezione è la più influente causa della guerra. Ciò significa, quindi, che il modello nonviolento causa la violenza e la guerra, pur negandola idealmente. La guerra si configura come azione di controviolenza che - opponendosi al conflitto avvertito appunto come violenza –si propone il ripristino dell’ordine precedente, della pace perfetta. Il grande pericolo del modello nonviolento risiede nel fatto che la violenza è insita nelle sue premesse, nel suo sogno di pace: essa è implicita, coperta, non immediatamente riconoscibile e difficilmente accettabile, proprio alla luce dell’ideale di pace cui si ispira. E la violenza diviene ancora più subdola e perversa, proprio perché nascosta.
Lo sguardo si sposta sull’attualità, a scoprire come oggi «la violenza non ha bisogno di aggredire, la tv ha preso il posto del manganello»: una società violenta esprime il conflitto, lo vive, mentre una società non conflittuale non ha raggiunto l’illuminazione, ma è passata alla fase di negazione e di rimozione del conflitto( propria del modello suddetto).
Figura 2 Modello nonviolento della pace
Euli fa presente come negli ambienti delle buone pratiche, sia molto diffusa la presenza di dinamiche riconducibili al primo modello, senza che ce ne sia consapevolezza. Il problema, afferma il suddetto, è nell’approccio, nella modalità: in quelle che egli chiama “premesse all’azione”. Abbiamo, cioè, lo stesso approccio tradizionale della società da cui si cerca di staccarsi. Così, le stesse logiche che si vorrebbero combattere, vengono iscritte nuovamente all’interno dell‘altro mondo possibile che si vuole creare.
Il primo modello è ben rappresentato dalla medicina occidentale, in cui la malattia viene vista come nemico da combattere e non come spia di uno squilibrio da gestire. Allo stesso modo, il conflitto è visto come elemento di disturbo e non come spia di malessere. E la cura è guerra che - eliminando il sintomo (e molto spesso non la causa) – porta alla guarigione. Ed ecco apparire in questo contesto, la guerra preventiva così tanto in auge oggi: come l’antibiotico agisce prima che ci sia l’infiammazione, al fine di prevenire un possibile attacco da parte dei malefici microbi nemici; allo stesso modo si promuovono guerre per evitare possibili pericoli.
La pace come quiete, la salute come assenza di sintomi, portano ad una sorta di immunizzazione in cui il conflitto e la malattia sono caos, male.
Il gruppo
Euli sposta il discorso direttamente sul gruppo: i corsisti vengono ricollegati all’insieme di cui fanno parte, ossia la Rees (anche se durante il corso, molte sono state le persone esterne rispetto alla quotidiana attività dell’associazione). “Colonizzati dalla visione della pace come quiete”, il gruppo è stato descritto come carente rispetto all’analisi delle proprie premesse, inconsapevole delle proprie dinamiche implicite. Dire premesse e dinamiche significa riferirsi a ciò che sta dietro ai comportamenti ed alle azioni; lì dove hanno sede le motivazioni, alle radici degli atteggiamenti. Infatti, il ruolo della formazione è proprio quello di influire sugli atteggiamenti, partendo dalla consapevolezza dei loro aspetti impliciti e nascosti, per divenirne soggetti attivi. La reazione dei corsisti è sembrata avvallare questa ipotesi: la sorpresa di fronte a quanto emerso dai giochi iniziali è testimone di un’assenza di auto-lettura da parte del gruppo. La maggioranza non ha mai verificato i presupposti messi in luce dai due modelli, ossia, non ha mai portato alla luce la propria modalità violenta: stato di negazione e rimozione. Una spia di ciò è il riconoscimento totale delle minoranze che, lungi dall’essere serena convivenza, si avvicina molto di più alla copertura del conflitto. Quale migliore luogo del confronto sulle diverse visioni del mondo alla base dell’economia solidale per rivelarne la parte più radicata e nascosta? E’ necessario uno studio, una riflessione sull’idealizzazione della pace in quanto quiete. «L’idealismo è violenza, il conflitto è vita»: l’idealismo tenta di cristallizzare la realtà in una condizione immutabile, quando la realtà è un flusso incessante, cambiamento continuo che passa proprio attraverso il conflitto. Ed è proprio nella gestione di questo, lo scarto tra il modello violento e quello nonviolento: imparare a cooperare nel conflitto, solo così col suo crescere, cresce la solidarietà.
Concorrenza e cooperazione
Attraverso il gioco del richiamo, si è mostrata la differenza tra spirito concorrenziale e spirito di cooperazione: si tratta di un gioco in cui i partecipanti - divisi in coppie - scelgono un richiamo col quale ognuno possa riconoscere il partner nella folla, solo attraverso il verso stabilito. Al termine il gruppo è stato diviso in tre fasce, a seconda della gestione del gioco: quella di chi ha scelto richiami molto forti, quella di chi li ha scelti troppo deboli e infine, la mezzana occupata da chi si è tenuto ad un volume medio. A giudicare dai decibel, molti sono stati inclusi nella prima fascia e ciò rivela la forte la presenza di uno spirito concorrenziale. Ad esso si aggiunge la fetta degli “ingenui” che ha dato una valutazione troppo ottimistica della realtà, scegliendo dei richiami flebili, cancellati dal rumore generale. L’ultima fascia è simbolo di una cooperazione nel conflitto che riesce a gestirlo, non essendone cancellata e ciò proprio grazie all’unione di concorrenza e cooperazione.
Figura 3 Quanto emerso dal gioco del richiamo
La concorrenza è un tipico elemento del sistema di mercato e ne rappresenta bene la funzione di canalizzazione dell’aggressività che gli è stata data, all’alba della modernità: il mercato è stato visto come motore e portatore di civiltà e questa, come il frutto della sublimazione delle energie aggressive e sessuali. L’attualità mostra ogni giorno come questo programma sia fallito. Anche lo sport, fiore all’occhiello della civiltà sin dai suoi albori, è stato creato col medesimo scopo: usare le energie altrimenti distruttive presenti nell’uomo.
Il Tempo
Se l’economia solidale non modifica le radici del sistema mondo che vuole creare, non potrà non ricadere nei medesimi meccanismi della società in cui viviamo; meccanismi violenti e che reiterano all’infinito i valori di cui sono figli. Se l’economia solidale si da come obiettivo solo quello di agire in superficie, limitandosi a sostituire gli oggetti delle proprie scelte ( l’acquisto di prodotti locali invece di quelli tradizionali, biologico ed equo e solidale al posto dei prodotti delle multinazionali, ecc.) senza intaccare la base di queste scelte, ha già perso. Ad esempio, promuovere il consumo critico senza intaccare il consumismo, non fa altro che alimentarlo facendo sì che esso inglobi tentativi e prodotti diversi (come sono le esperienze e i prodotti dell’economia locale o del commercio equo). Provocatoriamente Euli afferma: «l’economia solidale non è conveniente». Se permangono le premesse tradizionali, le pratiche dell’economia solidale non solo non sono convenienti, ma finiscono con il creare molto più stress di quello che vogliono combattere. Cura delle relazioni, produzione domestica, il gruppo d’acquisto solidale, la bottega… cercare di ‘farci stare tutto’, non avendo però cambiato i presupposti dello stile di vita, è davvero controproducente!Per rendere conveniente (in termini umani e non economici!) l’economia solidale, è fondamentale lavorare sulle premesse: iniziamo dal tempo. Nel breve termine l’economia solidale appare inutile, non conveniente, controproducente. E’ nel lungo termine che diviene rilevante e conveniente. Nella nostra cultura, che vede il tempo come denaro, collegato alla produzione, la concorrenza non solo è coerente con tale visione, ma conveniente. Il tempo è risorsa scarsa e la concorrenza è la lotta per accaparrarsi questa come le altre risorse scarse; inoltre, grazie ad essa l’impiego del tempo viene ottimizzato sempre di più. Finché domina questa visione efficientista del tempo, l’economia solidale non può esistere davvero. Bisogna lavorare sul tempo, decolonizzarne l’immagine di unità di misura produttiva, di freddo contenitore da riempire, da far fruttare. Cosa veramente ardua, osserva Euli, per chi vive nel modello marchigiano, il piccolo miracolo del nord-est nel centro Italia (1). L’economia solidale non può pensare di essere una risposta alla catastrofe in atto, senza rivedere i propri fondamenti. «L’economia solidale dovrebbe essere un gioco da giocare durante la catastrofe»; un gioco che ci permetta di viverla, dato che essa costituisce il contesto in cui viviamo. Convivere attivamente con essa e magari sopravviverle; il grande passo che bisogna compiere sta nella scissione tra tempo e denaro e tra lavoro e denaro. Solo così, si può sperare di mettere in atto la liberazione. Senza questo grande salto, l’economia solidale rischia di essere come la filantropia, l’umanitarismo: funzionale al sistema violento.
Lavorare sulle premesse
Con questa espressione si intende il lavoro di riconoscimento delle motivazioni più implicite e profonde, le premesse appunto, della propria azione. Solo così diviene possibile gestire quei comportamenti tipici del mondo del volontariato, come il paternalismo, il buonismo, l’assistenzialismo, il populismo, ecc. Noi viviamo senza confrontarci veramente, né con noi stessi, né sulla nostra visione di economia solidale. Infatti, sono ben pochi i momenti in cui questi elementi affiorano all’attenzione…
Figura 4 L’aquilone ed accanto, la valutazione della scala dei comportamenti Gandhiana
L’aquilone
Si tratta di «un rombo che configura quattro modalità del sé, intese come modi di porsi rispetto all’esistere»(2) . Nel suo libro “I dilemmi (diletti) del gioco”, Euli descrive così lo schema dell’aquilone: «(…) Se dividiamo il rombo al centro, formiamo due triangoli simmetrici. Chiamiamo quello in alto il triangolo della nonviolenza (…) configura l’atteggiamento dell’assertività, fondamentale per una comunicazione positiva nei conflitti. Il lato che scende (…) ci ricorda invece il valore dell’empatia, della capacità di uscire da sé, di accogliere il limite che l’altro rappresenta per noi. Il triangolo in basso è viceversa quello della violenza: (…) è la sede della passività, che insieme e spesso ancor più dell’aggressività distruttiva è causa di violenza e sintomo di un’alta incompetenza a comunicare e restare in relazione»(3) . Ancora: «La capacità di comunicare è tanto più alta e costruttiva tanto più, ovviamente, si supera la tradizionale impostazione, intrisa di violenza, e si va verso modalità empatico-assertive, che conciliano il massimo livello di espressione e d’autonomia col massimo possibile di apertura e di relazione»(4) .
Oggi viviamo nell’epoca di massima violenza: una minoranza attiva, aggressiva, domina una maggioranza passiva. E tutto ciò si riversa anche nel piccolo mondo dell’economia solidale, in cui i più attivi sono anche i più aggressivi. Come passare dalla passività all’assertività? E’ necessario che
• i più passivi diventino più assertivi
• i più aggressivi diventino più empatici
La passività dovrebbe tornare al suo ruolo di azione pubblica, di non collaborazione con le logiche del contesto attuale. In questo senso, la depressione, l’inerzia e la pigrizia sono da vedersi come forme di resistenza verso l’attacco totale sferrato ad ogni sfera della vita umana dal mercato e dai suoi meccanismi. Il mercato ha colonizzato tutti e quattro i lati del rombo, ed oggi assistiamo all’ultimo atto, che – in quanto volontariato - ci riguarda molto da vicino: la conquista dell’empatia. L’attuale umanitarismo paradossale (come le guerre umanitarie combattute negli ultimi anni) ne è la prova lampante. Il volontariato – all’interno del quadro generale – non fa che aggravare la situazione:, poiché spesso conduce all’empatia passando dal lato della passività, divenendo esso stesso complice della violenza del sistema. L’altruismo diventa buonismo ed il conflitto viene ancora più nascosto e rimosso: il triangolo della violenza viene celato sotto la bandiera della solidarietà.
Piccola diagnosi
L’economia solidale deve indagare i conflitti al suo interno (conflitti di gruppo, conflitto col mercato), verificare il proprio grado di colonizzazione e di omologazione rispetto ai meccanismi della società da cui dice di volersi allontanare; così può smettere di essere un nido tranquillizzante per poter costituire un nuovo inizio. Questo lavoro lungo e profondo sulle premesse, propone Euli, nel caso della Rees marche, dovrebbe iniziare con la gestione del gruppo stesso. Osservando le dinamiche, Euli ha suggerito la divisione tra leadership e facilitazione, così da renderlo veramente democratico e partecipato. Inoltre, è necessario che si sviluppino le competenze necessarie al lavoro su se stessi: competenze e non ruoli, visto il pericolo di accentramento cui sembra andare incontro il gruppo. Esso necessita di accrescere le capacità di facilitazione e formazione, più che di formatori e facilitatori. Il modello marchigiano tende al produttivismo, alla specializzazione, all’ottimizzazione: non è così difficile portare questi elementi all’interno delle pratiche alternative. Questa è la radice del gruppo e dall’analisi di questa, dalla consapevolezza di ciò, si deve partire. Bisogna sviluppare le capacità in maniera diffusa; non creare gerarchie, ma diffondere orizzontalmente i poteri e le capacità. Il rischio della rete, per esempio, è l’espertizzazione. Il gruppo, però, è diverso dalla rete: parte dal riconoscimento dell’appartenenza, che nella rete non c’è. Infatti, nel gruppo è ancora molto forte il nodo dell’identità.
Figura 5 Descrizione dell’identità
Note
(1)La realtà in cui si cresce influisce su di noi con i suoi valori, ed è molto difficile estirpare tale radice. Il lavoro di consapevolezza inizia proprio da questa azione di individuazione e cambiamento: ecco cosa significa agire sulle premesse.(2) Enrico Euli, I dilemmi (diletti) del gioco, edizioni La meridiana p.22
(3)Euli, op. cit. p.23
(4)op. cit. p.23