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    24 giugno 2007 - Alessandro Fedeli
    Fonte: Bollettino di Primavera Rees Marche Anno 2007

    Conferenza Nazionale Del Volontariato 2007

    Nelle righe che seguono provo a riordinare le mie personalissime impressioni sui lavori della recente Conferenza Nazionale del Volontariato di Napoli, tentando di fornire stimoli e spunti di riflessione che mi piacerebbe fossero oggetto di successivi approfondimenti e discussioni nelle sedi appropriate.
    Sorvolo sull’organizzazione logistica della Conferenza, che, a voler essere gentili, potremmo definire inadeguata: nessuna indicazione per raggiungere il luogo della Conferenza, posti a sedere insufficienti per tutti i partecipanti (benché il numero degli stessi era facilmente prevedibile contando le schede di iscrizione arrivate ed anche ipotizzando la solita percentuale di persone che arrivano pur non essendo iscritti), i pochi materiali a disposizione esauriti appena dopo un’ora dall’inizio dei lavori, spazi espositivi praticamente inesistenti, nessuna possibilità di avere informazioni certe e tempestive sull’organizzazione dei lavori…e mi fermo qui.
    Ma è sui contenuti emersi che intendo soffermarmi. All’indomani della Conferenza qualcuno ha parlato di grande successo considerando il solo indicatore del numero dei partecipanti. Credo che il giudizio su un qualsiasi incontro si “misuri” anche dalla qualità di quanto espresso e soprattutto definito. La Conferenza non si poneva alcun obiettivo chiaro da perseguire e questo è a mio avviso un grosso limite. Non ci si può ritrovare a Napoli in oltre 2000 con tutti i sacrifici e costi da sopportare senza aver chiaro cosa andare a fare e cosa portare a casa. Sarebbe bastato fissare un solo obiettivo, quale ad esempio: definire le linee guida della revisione della legge nazionale del volontariato ed uscire dai lavori con una proposta in tal senso, per dare un senso ai fiumi di parole che sono stati pronunciati. Ed invece nulla di tutto questo. E non poteva essere altrimenti visto che non c’è stato il benché minimo percorso di preparazione ai lavori della Conferenza. Questi eventi o si preparano o diventano l’ennesima occasione per “parlarsi addosso”, per alimentare l’autorefenzialità del volontariato, tanto cara ai nostri detrattori e per ascoltare, come purtroppo successo, concetti e discorsi triti e ritriti.
    Ma vado con ordine e mi fermo su alcuni pensieri che più di altri sono rimasti nella mia mente.
    Il ministro Ferrero ha parlato, tra i diversi concetti espressi, della necessità di risolvere il dilemma tra “volontariato retribuito” e “lavoro sottopagato”. Per inciso, nel servizio dedicato alla Conferenza dal TG1 delle 20 di venerdì 13 aprile è stato l’unico concetto espresso dal Ministro nei dieci secondi a disposizione. E’ ovvio che entrambi le affermazioni “stonano” e contengono in se qualcosa di negativo. Ma è solo questo il problema del volontariato o comunque è questo il nodo critico principale del nostro mondo? Se consideriamo che, da recenti indagini, la percentuale delle associazioni che ricorrono a prestazioni retribuite, le uniche che potrebbero essere etichettate come “volontariato retribuito” o “lavoro sottopagato”, non arriva al 25%, va da se che non può essere questo il principale problema del volontariato, quantomeno perché, sia pur ammettendo che sia un problema, riguarda una minoranza del nostro mondo.
    Collegata a questi concetti è indubbiamente l’ampia discussione che si è fatta sui rimborsi spese forfetari si o no. Ed infatti sono proprio questi che, quando assumono una certa consistenza, danno origine al “volontariato retribuito” o al “lavoro sottopagato”. Personalmente non faccio una questione di entità del rimborso: quando un volontario percepisce un qualsiasi rimborso non documentata siamo di fronte ad una delle fattispecie di lavoro “nero”, a prescindere che siano 10 euro o 1000 euro al mese. Sono convintissimo che alcuni rimborsi forfetari, proprio per la loro scarsa entità e per la loro certa veridicità, sono anche inferiori a quanto un volontario avrebbe diritto se documentasse tutte le spese, sostenute per svolgere la sua attività. Ma se è così, è davvero difficile preferire la pratica, a volte anche burocratica, di erogare solo rimborsi documentati piuttosto che ricorrere a rimborsi forfetari, indubbiamente più pratici, ma altrettanto sicuramente poco trasparenti?
    Ampio spazio ha poi trovato la discussione attorno ad un ipotetico dilemma: il volontariato può gestire servizi? L’interrogativo nasce dall’affermazione sostenuta da alcuni secondo la quale il volontariato deve concentrare la sua iniziativa esclusivamente su azioni di advocacy che si sostanziano nella denuncia dei diritti negati per inadeguatezza o non applicazione delle normative, nella promozione e tutela di quelli esistenti e nella partecipazione attiva e propositiva alla programmazione, realizzazione e valutazione delle scelte pubbliche. Corollario di tale affermazione era che qualora il volontariato si trovi a gestire servizi più o meno complessi perde la sua identità originaria per trasformarsi in altro soggetto, talvolta non meglio definito.
    Insomma se si fa solo advocacy si è volontariato, se invece si gestisce servizi si è qualcos’altro.
    Sono fermamente convinto che l’azione del volontariato, quale che sia il suo campo di azione, non dovrebbe mai ridursi solo alle attività di “riparazione” ma dovrebbe sempre e soprattutto essere pratica di cittadinanza solidale, voce di chi non ha voce, richiamo alle istituzioni alle proprie responsabilità di tutela e garanzia dei diritti, impegno nella rimozione delle cause di emarginazione e disuguaglianza. Ciò mi porta però di converso a ritenere che un’associazione che si trovi a gestire servizi, più o meno strutturati, conservi l’identità di realtà di volontariato qualora rispetti due principali condizioni e cioè quella di operare con il prevalente contributo di personale volontario e quella di non rinunciare al suo ruolo politico e culturale. Solo se una o entrambe queste condizioni non vengono rispettate allora possiamo dubitare dell’identità di quella organizzazione. Il solo fatto che un’organizzazione di volontariato gestisca servizi non ci deve assolutamente autorizzare a “bollarla” come non di volontariato. Certo è che tali organizzazioni devono però prestare la massima attenzione per evitare il rischio di farsi travolgere dalla gestione routinaria dei servizi e perdere di conseguenza la capacità di riflettere, valutare e progettare. Ed ancora se è vero, e su questo credo che tutti concordiamo, che il volontariato deve muoversi in una logica di sussidiarietà nei confronti degli enti pubblici che mai dovranno venir meno alla loro prioritaria funzione di garantire gli essenziali bisogni a tutte le categorie di cittadini, perché un’organizzazione di volontariato che è in grado, conservando la propria identità e missione, di gestire un servizio in risposta ad un bisogno di una comunità territoriale, che altrimenti non verrebbe soddisfatto, non dovrebbe farlo?
    Un altro pensiero: ancora una volta la visibilità della Conferenza e quindi del nostro mondo è stata insufficiente per non dire inesistente. Conosciamo tutti le logiche dei mezzi di comunicazione e nonostante gli sforzi, che a dire il vero potremmo intensificare e qualificare, è impresa ardua se non impossibile modificarle. Certo però che una Conferenza dove gli altri Ministri comunque interessati all’attività di volontariato (Sanità, Ambiente, Cultura e Politiche Giovanili) erano assenti (ma sono stati invitati?) così come assenti erano quasi tutti i rappresentati politici nazionali e regionali, fatta eccezione per i presidenti delle commissioni affari sociali di Camera e Senato, contribuisce ad oscurare sempre più la nostra azione ed il nostro messaggio.
    Si è discusso poi molto della mancanza nel nostro mondo di leader carismatici di livello nazionale e soprattutto del progressivo invecchiamento delle nostre organizzazioni. Forse personaggi dello spessore di Luciano Tavazza ed altri che come lui hanno fatto la storia del volontariato non ce ne sono in giro, ma siamo altrettanto sicuri di aver fatto tutto quanto era nelle possibilità del nostro mondo per formare, crescere e responsabilizzare alcune figure dirigenziali con ottime credenziali che comunque ci sono nelle nostre associazioni? E quando dico questo penso a vari personaggi che ho avuto modo di conoscere sia in giro per l’Italia ma anche nella nostra regione. O forse il cancro della voglia di potere si è impadronito di alcune membra del nostro mondo, impedendo a qualche crisalide di dare vita alla farfalla? Ed in parallelo faccio la stessa considerazione riguardo la carenza di giovani che tutte le nostre associazioni lamentano: innanzitutto lasciatemi dire che il comune sentire di giovani vuoti e passivi (e la lista degli aggettivi negativi potrebbe essere infinita) è solo un brutto luogo comune da sfatare. Indubbiamente una minoranza da “ricostruire” esiste ma questa non deve certo farci dimenticare una maggioranza pura e volenterosa che chiede solo di essere informata e coinvolta. Purtroppo, molte sono quelle realtà dove l’età media dei volontari è piuttosto elevata e ciò penalizza la volontà di avviare nuovi percorsi ed iniziative. Molti sono quei presidenti che chiedono ripetutamente a gran voce giovani che possano sostituirli. Sono dichiarazione formali, nei fatti però non è raro imbattersi in costoro che, messi di fronte ad una concreta possibilità di ricambio, si attaccano così saldamente alla loro “poltrona” da far invidia a quella famosa azienda produttrice di collante, che nella sua pubblicità si affida a ben più sinuose forme. Le associazioni dovrebbero invece preoccuparsi costantemente ed incessantemente di promuovere e curare l’ingresso dei giovani nelle loro realtà. Sono proprio questi che possono garantire un rinnovato entusiasmo ed un futuro a preziose esperienze di solidarietà e volontariato. Ed è proprio questa la scommessa fondamentale che le associazioni di volontariato dovranno essere pronte a giocarsi per il loro futuro: “lasciare spazio ai giovani” che significa coinvolgerli in cose concrete piuttosto che in dibattiti culturali, affidare loro compiti e responsabilità controllando da lontano “a fari spenti” che sappiano sempre mantenersi in carreggiata, accettare qualche “incidente di percorso” ed infine essere pronti a farsi da parte per far posto a giovani che sicuramente possono avere una mentalità ed un modo di agire diverso da quello che l’associazione ha abitualmente adottato ma che altrettanto sicuramente garantiscono che il fiume del volontariato possa continuare ad irrigare terreni aridi ed assetati.
    Scusate la franchezza, ma la diplomazia non rientra tra i miei pochi pregi, ammesso e non concesso che io li abbia e che la diplomazia lo sia. Parliamone, magari riusciamo a migliorare qualcosa.

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