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    24 giugno 2007 - Eric Ezechieli
    Fonte: Green Planet Natural Network http://www.greenplanet.net

    Modello Bhutan

    Bhutan controcorrente. Mentre una cospicua parte del mondo è intrappolato dalla cultura occidentale contemporanea, tramite una sofisticatissima e persuasiva macchina propagandistica e mistificatoria, che inesorabilmente promuove il consumo e l’individualità come valori fondamentali ed il brevissimo termine come l’orizzonte temporale di riferimento, un piccolo Paese asiatico procede in tutt’altra direzione, anteponendo allo sviluppo convenzionalmente inteso, obiettivi di preservazione dell’ambiente e biodiversitá, di equità sociale e di preservazione della cultura …

    Gross National Happiness o Felicità Nazionale: lo stupefacente modello di sostenibilità del Bhutan
    Un governo, una popolazione, uno stato che ha fatto della sostenibilità la propria strategia di sviluppo. Una questione legata sì agli indicatori per la misurazione del grado di benessere ma soprattutto alla volontà di cambiare il paradigma dominante

    In una riflessione su come implementare la sostenibilità, Dana Meadows nel 1997 scrisse che il principale punto di leva per il cambiamento in un sistema complesso risiede nei “Modelli Mentali o nei Paradigmi sui quali il sistema si fonda.” Ma cosa sono questi paradigmi? In breve sono “l’insieme di idee condivise dalla società, i grandi principi sottintesi – sottintesi perché talmente dominanti che é inutile dichiararli; é il sistema di valori e credenze fondamentali su come il mondo sia organizzato.”
    Un esempio di cambio di paradigma fu il salto di visione dell’universo dal sistema geocentrico a quello eliocentrico. A tale passaggio corrispose una fenomenale esplosione di idee e creatività, poi applicata fino ai giorni nostri attraverso illuminismo, rivoluzione industriale, fino alle “meraviglie” del mondo contemporaneo.
    Il paradigma oggi dominante a livello mondiale é la “necessità di crescita dei consumi,” cioè del Gross National Product (GNP, in italiano PIL, Prodotto Interno Lordo ndr), al fine di generare benessere. Il concetto fu brillantemente articolato ed implementato a partire dagli anni ’30 negli Stati Uniti, come soluzione ai problemi della grande depressione. Il suo successo é stato poi talmente pervasivo che ce ne siamo scordati le relativamente recenti origini. Abbiamo anche scordato che tale meccanismo non é mai stato testato prima e quindi non esiste alcuna garanzia sulla sua effettiva validità di lungo termine.
    Il PIL si fonda sull’aumento perpetuo di produttività del capitale economico, in condizioni di scarsità di capitale umano ed abbondanza di capitale naturale. E’ stato ed è tuttora sostenuto dal piú grosso apparato propagandistico mai esistito: la spesa globale dei soli spazi pubblicitari diretti (senza quindi contare produzione, ricerca etc) nel 2003 é stata di 380 miliardi di dollari. La principale determinante della cultura occidentale contemporanea é una sofisticatissima e pervasiva macchina – si calcola che ciascuno di noi sia esposto mediamente ogni giorno a 3600 impressioni pubblicitarie – che inesorabilmente promuove il consumo e l’individualità come valori fondamentali ed il brevissimo termine come l’orizzonte temporale di riferimento.
    Ad oggi, un solo paese al mondo ha messo sistematicamente in discussione “la necessità di aumentare il PIL”, per tutti gli altri paesi verità quasi dogmatica: il regno Himalayano del Bhutan. Alla fine degli anni ’80, il Re Jigme Singye Wangchuck, mirabilmente unendo l’educazione occidentale con la cultura Buddhista, arrivò a dichiarare: “La maggior parte degli indicatori economici sono un tentativo di misurare dei mezzi; non misurano i fini...Voglio quindi proporre la felicità [del popolo Bhutanese] come principale oggetto ed obiettivo politico.” Questa importante, coraggiosa e per certi versi epocale presa di distanza dai modelli dominanti - allora tanto capitalisti quanto socialisti – fu il frutto di un’analisi lunga e approfondita.
    Il Bhutan era rimasto isolato dal resto del mondo, paese poverissimo e fermo ad uno stadio pressoché medievale fino al 1961...quando la seria minaccia di invasione, che si prospettava da parte della Cina, aveva suggerito di cercare supporto presso la comunità internazionale. India e Nazioni Unite cominciarono quindi a studiare un percorso di ammodernamento del paese.
    Inizialmente al Bhutan fu proposto un modello tradizionale di sviluppo, analogo a quello avviato in molti altri paesi del cosiddetto Terzo Mondo. Tuttavia, gli esempi di fallimento e devastazione che venivano da questi paesi a seguito dell’adozione di tali strategie di breve respiro, suggerirono di progettare valide alternative, fondate sulla ricerca di equilibri e benessere di lungo termine. La classe dirigente si oppose ad un indiscriminato progetto di sviluppo economico e dettò condizioni che, fin dall’inizio, in maniera strategica, anteponevano obiettivi di preservazione dell’ambiente e biodiversitá, di equità sociale e di preservazione della cultura, ad obiettivi meramente economici. Venne declinata sostanzialmente quella che oggi si potrebbe definire una responsabilità sociale o, meglio, una sostenibilità di stato. E tutto questo più di quaranta anni fa!
    La strategia di sviluppo che il Bhutan delineò in pratica incluse nel proprio DNA i principi di sostenibilità forte, con decenni di anticipo rispetto a tutti i paesi considerati “piu’ evoluti, civili, moderni”. Il risultato è che oggi il Bhutan é probabilmente l’unico vero caso di successo nello sviluppo di una paese povero, l’unico caso di indiscutibile esito positivo di interventi della Banca Mondiale, criticati invece anche duramente in un’infinità di altre circostanze.
    I finanziamenti della Banca Mondiale, che negli ultimi 15 anni hanno rappresentato la seconda voce in entrata del bilancio del paese, sono stati impiegati prioritariamente e rigorosamente per lo sviluppo del sistema educativo e sanitario. L’UNDP Development Index per il Bhutan (indice con cui si intende misurare il grado di livello di sviluppo di un paese ndr) e’ tra i migliori di tutti i paesi in via di sviluppo. E pure le prospettive per il futuro sono decisamente rosee, basti pensare che:
    - l’aspettativa di vita media é passata da meno di 35 anni nel 1961 a quasi 70 nel 2002
    - il tasso di alfabetizzazione dovrebbe raggiungere il 95 % entro il 2012, dallo 0.5 % del 1961
    - oltre il 30 % del territorio nazionale e’ protetto in un sistema di parchi nazionali e regionali, connessi da corridoi per le migrazioni della fauna (una legge del 1995 vincola il paese a mantenere una copertura boschiva perenne superiore al 60 %, che attualmente supera il 70 %, e principi di disboscamento degli anni ’60 e ’70 sono stati ampiamente recuperati con interventi di rimboschimento effettuati da ex contadini riconvertiti a tali compiti)
    - come effetto di intensi programmi educativi per le famiglie, é previsto che il tasso di fertilitá si stabilizzi su un livello di sostituzione (un nato per ogni morto ndr) entro il 2012
    - il turismo e’ concesso solo nella misura in cui e’ ecologico, sostenibile e non invasivo nei confronti della cultura tradizionale delle popolazioni locali
    - il paese ha avviato un processo di democratizzazione, che ha visto la spontanea rinuncia al ruolo di capo dello stato da parte del Re nel 1998, anno in cui e’ stato inaugurato un parlamento.
    Certamente, l’avere anteposto un fine, la Gross National Happiness (GNH, o “Felicita’ Nazionale”), ad un mezzo, la crescita della produzione o dei consumi, rappresenta una “rivoluzione copernicana” rispetto al paradigma dominante. E costituisce allo stesso tempo una delle principali determinanti del successo finora ottenuto.
    Per quanto il concetto di felicità possa apparire vago nella misurazione del livello di benessere di un paese, in realtà si sta rivelando molto piu’ significativo ed influente di altri parametri economici di uso comune, come appunto il PIL, che da tempo è criticato e giudicato inadatto a rappresentare effettivamente il reale livello di benessere goduto da una popolazione. Studiosi ed economisti di tutto il mondo da anni stanno analizzando il caso del Bhutan, per migliorare le modalità operative ed applicative dei principi di sviluppo della GNH, rafforzarne la solidità e trarne insegnamenti che siano trasferibili in altri ambiti.
    La teoria economica adottata dal Bhutan trova le sue radici in una tradizione buddista che ha in Prayudh Payutto ed E. F. Schumacher i principali esponenti teorici. La cosiddetta “buddhist economics”, in estrema sintesi, individua nella persona il fulcro dell’economia e dello sviluppo; l’economia neoclassica dominante, per contro, pone al centro della propria analisi il capitale, tipicamente industriale, finanziario ed economico, relegando la persona in posizione secondaria. Conseguentemente, nel calcolo del PIL vengono addizionate malattie – ad es. si stima che ogni caso di leucemia generi nove posti di lavoro, quindi aumenti il PIL – e devastazioni ecologiche – il naufragio della superpetroliera Exxon Valdez nel 1989, un disastro ambientale di enormi dimensioni, fece impennare il PIL dell’Alaska. Il valore delle imprese, inoltre, generalmente aumenta per quante meno persone vi lavorano, o per quanto piú esse riescono ad esternalizzare i loro costi: Jack Welch di General Electric, il piu’ quotato manager degli anni ’90, era soprannominato “neutron” per la sua capacità, analoga a quella di una bomba al neutrone, di eliminare le persone lasciando intatte le infrastrutture, migliorando così la produttività dell’impresa, la redditività del capitale e la performance economica.
    E’ dunque indispensabile completare il progetto dominante di “crescita” rispondendo ad una domanda, tanto fondamentale quanto ignorata: “cosa vogliamo che cresca veramente?”.
    In un mondo sempre più globalizzato, il paradigma dominante fondato sull’aumento dei consumi sta esercitando una forte pressione sulla cultura, sui valori e sui comportamenti dello stesso popolo Bhutanese. I valori ed i comportamenti della popolazione, come emerge da uno studio del 2003 realizzato dall’Università statunitense di Stanford, risultano essere maggiormente influenzati dai mass media di matrice occidentale che dal sistema educativo. Inoltre, il sistema scolastico, fondato su schemi e modelli di derivazione britannica, si scontra con la strategia di sviluppo della Gross National Happiness, che ha le sue origini nella tradizione buddista.
    Il Bhutan è uno dei pochi paesi al mondo ad avere compreso, agendo prontamente ed efficacemente di conseguenza, che sono pian piano venuti meno i presupposti stessi su cui il paradigma dominante occidentale si è fondato sin dall’inizio. La conseguenza è stata che ora ci scontriamo drammaticamente con risorse naturali decrescenti e risorse umane sovrabbondanti.
    Le tecnologie che si sostituiscono all’uomo, la massificazione, l’egemonia delle imprese multinazionali, le economie di grande scala, la produzione industriale tradizionale lineare, il sistema economico “a propulsione fossile”: tutti aspetti che devono essere radicalmente riprogettati. E’ indispensabile l’adozione di “tecnologie appropriate,” che nello svolgimento di attivitá economiche salvaguardino o rigenerino biosfera e società, assicurando una più ampia occupazione.
    Le soluzioni tecniche esistono ma, come suggerisce Meadows, un cambiamento sistemico si verifica solo quando un nuovo paradigma viene condiviso ed accettato. Solo allora le soluzioni che affrontano i problemi alla radice, invece di mitigarne i sintomi, possono essere implementate. Il cambiamento di paradigma e’ comunque in atto: le crisi sociali, politiche, economiche, finanziarie, ambientali che si verificano purtroppo con frequenza quotidiana, ci portano a mettere in discussione la strategia fondata sul modello dominate di sviluppo: sempre più, come suggerisce William McDonough, emergono le carenze di un piano che è tragico, o addirittura inesistente. In questo quadro, la Corporate Social Responsibility puó essere vista come una delle componenti di un fondamentale, e soprattutto urgentemente necessario, cambiamento epocale del ruolo dell’economia: stiamo iniziando a riprenderci dall’ubriacatura che ci ha portato a credere che lo sviluppo economico, ed il successo dei suoi principali attori, cioè le imprese, fosse il fine ultimo. Al contrario, il fine ultimo non può che essere solo e soltanto l’essere umano, il benessere dei nostri figli e dei figli dei nostri figli, fondamento della vita. La vita degli esseri umani e di tutte le specie viventi è il fine ultimo, perché da essa dipendiamo totalmente.
    Come il caso del Bhutan ci dimostra, l’attività economica ed imprenditoriale non è che un mezzo, che deve essere funzionale alla vita e all’essere umano e non dominarlo. Come tale, essa va riposizionata nella scala delle nostre priorità, per avviarne la trasformazione da forza troppo spesso distruttiva a maggiore forza creativa.

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